Gaza City, l’occupazione che aggrava la catastrofe

Gaza City, l’occupazione israeliana che aggrava la catastrofe

Dal 15-16 settembre l’IDF ha lanciato l’offensiva su Gaza City: in poche ore centinaia di civili sono morti e decine di migliaia si sono messi in fuga lungo la costa verso il sud. Organizzazioni internazionali parlano di una città già in stato di carestia e ora travolta da un esodo forzato, con corridoi umanitari intermittenti e punti di accesso agli aiuti chiusi o inaffidabili. (Reuters)

Le ragioni ufficiali israeliane — smantellare la struttura militare di Hamas, liberare gli ostaggi, ridurre i rischi ai civili — si scontrano con una dura realtà operativa: solo una parte della popolazione è riuscita a evacuare, molte aree restano densamente popolate e ogni avanzata richiede presidi che l’IDF fatica a garantire senza richiamare massicciamente riservisti. Il capo di stato maggiore Eyal Zamir aveva avvertito che l’occupazione su larga scala rischia di mettere in pericolo gli ostaggi e trascinare Israele in una lunga guerriglia urbana. (JPost)

Il risultato più probabile è dunque un paradosso: vittorie tattiche locali accompagnate da perdite umanitarie massicce e nessuna soluzione politica per il “dopo”. A ciò si aggiunge il rischio — denunciato da osservatori e giuristi — che l’obiettivo reale diventi lo svuotamento forzato della città e la riconcentrazione della popolazione nell’estremo sud di Gaza in “campi umanitari”, nella prospettiva dell’espulsione. Una prospettiva respinta dall’Egitto e condannata come illegale dagli organismi internazionali. (Ocha)

Quel che serve ora è chiaro: corridoi umanitari realmente garantiti, uno stop alle evacuazioni forzate e una forte pressione diplomatica internazionale per negoziare un immediato cessate il fuoco che protegga civili e liberi gli ostaggi. Senza una strategia politica credibile, ogni “battaglia definitiva” rischia di ripetersi, lasciando dietro di sé solo più morte e distruzione.

L’omicidio di Charlie Kirk

Sull’omicidio di Charlie Kirk, attivista e influencer della destra statunitense, valgono più di ogni altra cosa le parole del socialista Bernie Sanders, esponente dell’opposizione democratica.

Sull’omicidio di Charlie Kirk, attivista e influencer della destra statunitense, valgono più di ogni altra cosa le parole del socialista Bernie Sanders, esponente dell’opposizione democratica.

«Nonostante fossi in forte disaccordo con lui su quasi tutti i temi, Kirk era un comunicatore e un organizzatore molto efficace, coraggioso nel confrontarsi pubblicamente. Esprimo le mie condoglianze alla famiglia di Kirk e condanno con forza la violenza politica. La libertà e la democrazia non possono basarsi sull’assassinio di funzionari pubblici, sull’intimidazione o sulla violenza contro chi esprime opinioni politiche. L’omicidio di Kirk riflette una pericolosa escalation della violenza politica che mette a rischio la vita pubblica e scoraggia la partecipazione civile. L’essenza della democrazia è la possibilità di avere punti di vista diversi e discuterli senza paura di essere aggrediti o uccisi».

Le parole di Sanders non possono che risuonare in chi crede nella democrazia e nel socialismo.

Di tutt’altro tenore le dichiarazioni del presidente degli Stati Uniti, che ben più di un oppositore dovrebbe tendere all’unità del Paese. Donald Trump ha accusato la “sinistra radicale” di essere responsabile, o almeno di aver creato un clima favorevole all’omicidio di Kirk. Pur non conoscendo identità o movente dell’assassino al momento delle sue dichiarazioni, ha sostenuto che la sinistra demonizza figure come Kirk paragonandole a nazisti e criminali, e che questa retorica alimenta terrorismo e violenza. Ha promesso azioni contro le organizzazioni “colpevoli” di fomentare odio, ignorando al tempo stesso le vittime di matrice opposta.

In Italia Giorgia Meloni ha seguito la stessa linea. Ha reso omaggio a Kirk, definendolo un giovane coraggioso, ma poi ha puntato il dito contro una presunta cultura della sinistra italiana che minimizzerebbe la violenza politica. Ha evocato “falsi maestri in giacca e cravatta” che giustificherebbero l’omicidio, accusando indirettamente l’opposizione di alimentare il clima di odio.

Eppure, Tyler Robinson, sospettato come autore del delitto, non corrisponde al profilo di un attivista di sinistra. Ventiduenne dello Utah, cresciuto in una famiglia Maga e mormona, istruito all’uso delle armi dal padre, studente brillante, senza precedenti penali e con un interesse recente e discontinuo per la politica: il suo profilo contrasta con l’etichetta di “antifascista militante” che la destra ha cercato di appiccicargli.

La strumentalizzazione dell’omicidio di Kirk da parte di Trump e Meloni appare dunque molto forzata. Ma il problema della violenza politica resta reale. Negli Stati Uniti ha già colpito sia repubblicani sia democratici: l’assassinio della parlamentare Melissa Hortman e di suo marito, l’attentato incendiario contro il governatore Josh Shapiro, l’attacco a Donald Trump durante la campagna elettorale. Nel solo 2025 si sono contati circa 150 attacchi di matrice politica, quasi il doppio dell’anno precedente.

Il rischio è che la polarizzazione e la violenza politica degenerino in una guerra civile. La differenza rispetto alle situazioni di violenza politica del passato è che i leader oggi al potere, invece di ricomporre l’unità nazionale, cavalcano la divisione. Alimentano la psicologia della guerra – “noi contro loro” – trasformando il confronto democratico in una lotta esistenziale.

A questa logica occorre sottrarsi. Non bisogna offrire pretesti né lasciarsi trascinare nel gioco della provocazione. La difesa della democrazia passa anche da un linguaggio pubblico responsabile, capace di mantenere aperto lo spazio del confronto civile e di riconoscere nell’avversario non un nemico da abbattere, ma un interlocutore con cui disputarsi il futuro della comunità.

La Russia non si ferma a un distretto in più

Lo sconfinamento della Russia in Polonia: l'analisi di Andrew Spannaus

Il Messaggero ha ospitato un intervento di Andrew Spannaus, analista americano residente in Italia e vicino alle posizioni realiste. Il suo obiettivo è riportare il dibattito sulla Russia dentro coordinate più caute, dopo l’incidente dei droni russi sconfinati in Polonia e le reazioni europee. La tesi è semplice: Mosca non ha interesse a provocare un rafforzamento militare della Nato in Europa orientale, dunque va ridimensionata l’idea della volontà di un futuro attacco russo contro l’Europa.

Spannaus invita a mettere in discussione due assunti che, a suo avviso, drammatizzano l’analisi europea. Il primo riguarda la lettura automatica di ogni azione russa come prova di una strategia aggressiva contro la NATO, per saggiarne le difese o per volerla attaccare in un prossimo futuro. La Russia, sostiene, vuole l’Ucraina ma fatica a controllarne più del 20%: lotta per qualche distretto in più, non per un’escalation oltre i confini ucraini. Inoltre, chiede da anni l’arretramento delle truppe atlantiche dall’Europa orientale: a che scopo, allora, provocare il loro rafforzamento?

Il secondo assunto è quello della guerra ibrida permanente. Qui Spannaus richiama la “dottrina Gerasimov”, nata in realtà da un equivoco dell’analista britannico Mark Galeotti, che coniò l’espressione quasi per scherzo e poi la smentì. Nel suo articolo del 2013, il generale russo non teorizzava alcuna dottrina d’attacco, ma rifletteva su come difendersi dalle interferenze occidentali, comprese le “rivoluzioni colorate”.

La conclusione dell’analista è che gli incidenti di confine, come quello dei droni in Polonia, vadano gestiti con freddezza e razionalità: difendere con fermezza gli alleati NATO sì, ma senza alzare i toni né offrire pretesti per abbandonare la via diplomatica, che resta ancora percorribile. Un richiamo alla prudenza che rievoca le lezioni della Guerra fredda, quando la consapevolezza della “distruzione mutua assicurata” frenò più volte l’escalation.

Queste considerazioni hanno il loro valore. Spannaus ricorda che distinguere tra percezione e realtà è fondamentale per evitare automatismi bellici. E nello smontare la “dottrina Gerasimov” libera il dibattito da un mito persistente. La comparazione con la Guerra fredda, inoltre, sottolinea l’importanza della razionalità nella gestione della deterrenza.

Tuttavia, i limiti sono evidenti. L’analisi riduce la strategia russa a una somma di rivendicazioni territoriali e di resistenze all’allargamento NATO, senza considerare la dimensione ideologica ed espansionista del progetto neo-imperiale di Putin. Nei discorsi dal 2021 in poi, Mosca ha rivendicato la “Novorossija”, delegittimando l’esistenza stessa dell’Ucraina come Stato sovrano.

Anche sul piano della guerra ibrida, la sua lettura rischia di essere riduttiva. Che la “dottrina Gerasimov” sia un mito non significa che la Russia non pratichi tecniche ibride: disinformazione, cyberattacchi, sabotaggi, finanziamenti a partiti anti-UE, impiego di milizie mercenarie in Africa. Negare questa dimensione significa lasciare scoperto un campo dove Mosca ha investito risorse e capacità.

L’argomento secondo cui Putin non avrebbe interesse a provocare la NATO poggia su una logica razionale, ma presuppone che il Cremlino operi sempre secondo un immediato calcolo costi-benefici. L’invasione del 2022 in Ucraina puntando dritto su Kiev, come pure il sostegno ad Assad in Siria, dimostra invece che Putin è pronto a scelte rischiose e costose, persino autolesioniste, quando sono in gioco obiettivi politici o simbolici. La Russia non è sempre guidata dal pragmatismo, e questo va messo in conto.

C’è poi un altro aspetto che l’articolo non considera: la fragilità della NATO oggi. L’Alleanza non è più quella compatta del secolo scorso e neppure solo quella della precedente amministrazione Biden. L’appoggio americano all’Europa ormai non è scontato, e il 47° presidente degli Usa appare più incline a trattare Putin come un partner d’affari che come un nemico strategico. Parlare di deterrenza senza tener conto di questa variabile significa restare ancorati a uno schema passato.

Infine, la prospettiva di Spannaus è centrata interamente su Mosca: non discute come i Paesi confinanti percepiscano la minaccia russa come esistenziale e reclamino garanzie più forti dall’Alleanza. Un elemento cruciale, perché l’unità europea si gioca proprio sulla capacità di rispondere a quelle paure.

In sintesi, l’articolo di Spannaus è utile come antidoto all’allarmismo, ma rischia di sottovalutare la natura profonda e multidimensionale della minaccia russa, anche nelle sue stesse motivazioni difensive. Nelle politiche di potenza, spinte difensive ed espansioniste tendono a confondersi — basti pensare alle guerre israeliane in Medio Oriente. L’Europa ha sì bisogno di prudenza e di diplomazia, ma anche di una visione chiara della posta in gioco, che non si esaurisce in qualche distretto ucraino in più.

Droni russi in Polonia: l’articolo 5 della Nato

Droni russi in Polonia: articolo 5 della NATO e propaganda russa

Sotto l’aspetto tecnico-militare, secondo l’analisi del colonnello Orio Giorgio Stirpe, l’azione russa in Polonia è stata uno sconfinamento con droni disarmati e di bassa potenza, del tipo usato negli attacchi di saturazione. L’obiettivo era sondare le difese NATO e intensificare la guerra ibrida, mirata all’opinione pubblica occidentale, proprio mentre l’Alleanza appare meno coesa a causa di Trump.

Sul piano politico-militare, il colonnello Orio Giorgio Stirpe evidenzia invece l’automaticità della risposta NATO: cuore della dottrina dell’Alleanza e cardine della difesa europea. La guerra ibrida del Cremlino mira a insinuare il dubbio che, in caso di attacco a un membro “minore”, gli altri Paesi inizierebbero a discutere su come reagire, per poi tirarsi indietro.

Un’idea infondata: l’ineluttabilità della risposta militare nasce dalle procedure prefissate del Comando NATO, che prevedono reazioni automatiche a minacce definite. Se i russi sconfinano, le forze NATO li affrontano. E infatti la risposta c’è stata, persino sproporzionata, con F-35 olandesi e un G-550 italiano, anche se solo quattro droni su quattordici sono stati abbattuti.

Ma, si può obiettare, l’automaticità va distinta su due livelli.

  • Militare tattico: sì, esiste, per evitare esitazioni in caso di attacco improvviso
  • Politico-strategico: no, non esiste. L’Articolo 5 obbliga a considerare un attacco a uno come a tutti, ma lascia libertà su come reagire: anche senza usare la forza militare.

La propaganda russa punta soprattutto a far dubitare di quest’ultimo livello: la volontà politica. Perché se la Russia muovesse guerra alla Polonia o a un altro Paese dell’ex area sovietica, gli Stati Uniti di Trump e le principali potenze europee entrerebbero davvero in guerra contro Mosca? La deterrenza della NATO dipende interamente dalla credibilità di questa risposta.

L’attacco israeliano in Qatar

Chi approva l’anomalo attacco israeliano in Qatar vede soltanto il bersaglio: i leader “terroristi” di Hamas.

Chi approva l’anomalo attacco israeliano in Qatar vede soltanto il bersaglio: i leader “terroristi” di Hamas.

Si stupisce che altri non apprezzino l’omicidio mirato come alternativa alla strage, dopo aver tante volte condannato le stragi. Tutto ciò che non riguarda l’eliminazione del nemico viene messo da parte.

I leader di Hamas a Doha sono figure politiche. È tutt’altro che certo che possano essere considerati legittimi obiettivi militari. Il diritto di guerra distingue civili e combattenti, e tutela i leader politici che non svolgono funzioni operative. Colpirli significa compiere esecuzioni extragiudiziarie.

Inoltre, l’attacco ha violato la sovranità del Qatar, estendendo il conflitto a un Paese esterno e lontano dal teatro di guerra. Farlo in un’area civile espone inevitabilmente i civili a rischi, in contrasto con il principio di proporzionalità.

Chi giustifica operazioni di questo tipo interpreta il diritto internazionale in modo spregiudicato, o lo considera una semplice formalità. Ma senza regole, resta solo la legge del più forte. Può sembrare accettabile a chi pensa di giocare la parte del leone, ma i rapporti di forza possono cambiare, oppure l’evoluzione delle armi può neutralizzarli: anche il più debole, se capace di colpire una sola volta, può rendere vana la superiorità dell’altro. La giungla, oggi o domani, è un luogo insicuro per chiunque.

Non è un’astrazione: proprio oggi la Polonia ha visto violato più volte il proprio spazio aereo dai droni russi. Ogni abuso tollerato da uno Stato potente incoraggia altri a fare lo stesso. La forza cieca produce distruzione apparentemente senza senso, come la furia di un uomo che in casa spacca tutto — ma solo le cose degli altri. È questa la logica del terrore: colpire a caso per imporre sottomissione.

Infine, l’attacco in Qatar ha avuto un’altra conseguenza: ha colpito i negoziatori, non soltanto i nemici. I leader di Hamas erano riuniti per valutare la proposta americana di cessate il fuoco, che prevedeva la liberazione di tutti gli ostaggi in un giorno. Eliminare chi era al tavolo ha significato colpire anche i negoziati, e con essi l’ultima possibilità di salvare gli ostaggi.

Per il governo israeliano e per chi lo sostiene, gli ostaggi non sono la priorità. Restano i più vulnerabili, insieme ai civili di Gaza. Ma nella giungla i vulnerabili soccombono: non solo per gli artigli dei leoni, ma anche per la loro indifferenza.

Interloquire sì, associarsi no

La Commissione DuPre (Dubbio e Precauzione), composta da filosofi, scienziati e giuristi, si è formata negli anni della pandemia, a fine 2021. I suoi membri si sono distinti nel mettere in dubbio la pericolosità del coronavirus, la legittimità delle restrizioni sanitarie, l’efficacia dei vaccini. Poiché il confine tra l’esercizio del senso critico e la pratica dello scetticismo è labile, queste persone, secondo me, hanno finito per recitare una parte in commedia, dando voce e rappresentanza a quella parte della società che, sentendosi forte, non voleva assumersi oneri e responsabilità nei confronti della salute pubblica e dei più vulnerabili.

Qualcosa di simile, le stesse persone, la stessa commissione, hanno replicato in relazione all’invasione russa dell’Ucraina, quando il pacifismo si è confuso con la riluttanza ad accettare i costi del sostegno a Kiev e delle sanzioni a Mosca. Sebbene le due situazioni siano diverse — perché in un conflitto geopolitico il giudizio è inevitabilmente più soggettivo che scientifico — si è verificata una sovrapposizione tra mondo novax e mondo filorusso.

Mi dispiacerebbe vedere questa sovrapposizione allargarsi anche al mondo solidale con il popolo palestinese. Questo mondo, infatti, pratica una filosofia opposta: si assume delle responsabilità, è disposto a pagare un prezzo per gli altri. Sulla guerra di Gaza, la parte dei negazionisti la fanno i filoisraeliani, o almeno quella quota di filoisraeliani più acritica nei confronti del governo Netanyahu.

Per questo non mi preoccupa tanto la partecipazione in sé di Francesca Albanese — che ha tutto il diritto e persino il dovere di interloquire con soggetti diversi, per la causa dei diritti umani — quanto il modo in cui la Commissione DuPre la presenta. Nella locandina dell’evento torinese dell’11 settembre 2025, infatti, il suo nome compare accanto a quelli di Cacciari, Mattei e altri membri abituali, senza alcuna distinzione di ruoli. In questo modo si produce l’impressione di un’adesione politica, rafforzata dall’invito a “donare alla DuPre” collocato subito sotto i nomi dei relatori.

Il rischio è che una figura che rappresenta con rigore il diritto internazionale e i diritti umani venga strumentalizzata per conferire legittimità a un fronte segnato, in altre circostanze, da derive complottiste e negazioniste. Interloquire sì, dunque, ma senza che la comunicazione trasformi il dialogo in un’associazione indebita.

Tre inganni sul genocidio di Gaza

Tre sono gli argomenti ingannevoli dell’articolo di Ernesto Galli Della Loggia contro l’uso della parola “genocidio” per definire quanto Israele sta facendo a Gaza.

Il primo è fingere che “genocidio” sia solo una parola bandiera agitata da una nicchia movimentista e poi adottata da tutti in coro. Come se non esistesse una causa aperta alla Corte Internazionale di Giustizia, che ha ammesso la plausibilità del genocidio e ordinato a Israele di prevenirlo. Come se non ci fossero rapporti ONU e ONG, o un dibattito storico e giuridico documentato. Si può non condividere l’uso del termine, ma ignorarne la plausibilità e ridurre tutto a un riflesso emotivo o malevolo è una scelta che rivela debolezza, non rigore.

Il secondo è scivolare nel sarcasmo, dopo aver rifiutato di prendere sul serio le tesi avversarie. Allora Israele, “stato genocida”, sarebbe inefficiente rispetto alla Germania nazista perché ha ucciso solo 60 mila persone in due anni, invece di milioni. Ma il genocidio non si misura in quantità di morti: la differenza non sta nei mezzi ma nel contesto. La Germania agì dentro una guerra totale, senza diritto internazionale codificato, senza opinione pubblica libera, senza alleati democratici da cui dipendere. Israele invece è vincolato da tutti questi fattori, e se intende spingere verso la distruzione del popolo palestinese deve farlo in modo mitigato e graduale.

Il terzo è assumere la Shoah come unico modello genocida e farne un’asticella al di sotto della quale non può esserci genocidio. Ma la memoria della Shoah non serve a fissare un metro di misura, bensì a riconoscere e prevenire ogni progetto di deumanizzazione e distruzione. Altri genocidi di entità numericamente inferiore – dal Ruanda a Srebrenica (riconosciuto genocidio dalla Corte internazionale nel 2007) – non hanno banalizzato Auschwitz, ma hanno mostrato che il crimine può assumere forme diverse. Ogni genocidio è eccezionale. L’alternativa è considerare “normale” Gaza, come semplice sfondo alle notizie quotidiane.

L’uso del termine “genocidio” deve misurarsi con la definizione della Convenzione ONU del 1948: «atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso». È plausibile riconoscervi il caso palestinese: Israele percepisce i palestinesi come minaccia demografica, rifiuta sia i due Stati sia lo Stato unico binazionale, e ormai perfino lo status quo di apartheid, giudicato insostenibile dopo il 7 ottobre 2023. Restano la pulizia etnica e il genocidio. Forse non condivisi integralmente dai vertici israeliani, ma certo presenti come opzione politica e, da quel che vediamo, come pratica sul terreno.

L’uso di termini quali “strage”, “massacro”, “eccidio” proposti dall’autore in alternativa a “genocidio” sono spesso usati per descrivere azioni violente e concentrate nel tempo. Come l’attacco del 7 ottobre, che non a caso nominiamo con la data di un giorno. Questi termini non rendono invece conto di un’azione prolungata per anni in forme che tendono alla distruzione totale delle condizioni materiali di vita di un intero popolo.

Se si è in dubbio, non è obbligatorio assumere una posizione netta e definitiva adesso. Serve esprimersi e agire per fermare l’azione militare contro la popolazione di Gaza, altrimenti il genocidio, se non c’è, ci sarà. Il pericolo è riconosciuto anche da voci che negano la definizione: Liliana Segre e Benny Morris, intervistati per contraddire David Grossman, hanno ammesso che quando si arriva ad affamare e a uccidere in massa la popolazione, il rischio di genocidio c’è.

Non banalizzare il dibattito, dunque, ma riconoscere almeno la plausibilità del genocidio e l’imperativo di prevenirlo.

Resistere senza farsi distruggere

L’essere integralmente qualcosa non mi appartiene, perciò è probabile che non sia un pacifista integrale. Sono contro la violenza e l’uso della forza. Però, in certi casi e a certe condizioni l’ammetto. Quando ha dalla sua una ragione giusta e fondamentale; se è capace di colpire in modo mirato e proporzionato; qualora sia efficace e rapida rispetto a scopi definiti. Il solo aver ragione è insufficiente. Coinvolgere innocenti e inermi è inammissibile. Prolungare il conflitto è disastroso, specie nel perseguire obiettivi confusi o improbabili. Queste condizioni per me valgono, sia se attacchi, sia se ti difendi.

Se ti difendi, la tua ragione è più nobile. Infatti, ogni aggressore cerca di appropriarsene per rivendicare a modo suo il diritto alla difesa. Il pubblico più sano è predisposto a solidarizzare con chi si difende: l’Ucraina invasa dalla Russia, i palestinesi massacrati dagli israeliani. Ma la solidarietà può incoraggiare a resistere e in questo sbaglia, se non ha i mezzi per offrire un sostegno concreto, se non rischia qualcosa in proprio.

L’Ucraina ha i mezzi per resistere, anche grazie all’aiuto occidentale. Tuttavia, la sua resistenza rallenta solo l’avanzata russa, non riesce a invertire il corso della guerra, che intanto si trascina da tre anni, bruciando la vita di una generazione di ucraini e anche di russi. Ne vale davvero la pena?

I palestinesi invece sono senza mezzi, a parte l’arsenale di Hamas che può infliggere un colpo a Israele e fare una circoscritta strage indiscriminata e perciò criminale, ma poi tutta la Striscia di Gaza è massacrata, devastata, affamata per mesi e anni. Hamas sopravvive mentre tutto ciò che la circonda muore. Ne vale davvero la pena?

L’indipendenza, la sovranità, l’autodeterminazione sono ideali e principi giusti. C’entrano con le condizioni materiali di esistenza, che sono il vero bene da salvaguardare. Ci si sente vivi a incarnare quegli ideali. Appunto, dovrebbero servire per vivere. Ma se muori a cosa servono? A far vivere altri che poi muoiono come te? Forse vivrai, moriranno i tuoi genitori, tua moglie, i tuoi figli, i tuoi amici. Vivrai, forse su una sedia a rotelle, se ce n’è ancora una disponibile. Oppure, tenendoti su due stampelle, mentre le tue gambe finiscono sopra il ginocchio. Potrai guardare tutto quello che non puoi toccare, perché ti hanno amputato le braccia senza anestesia. O non vedrai più nulla, perché sarai diventato cieco. Magari, invece sarai tutto intero, prigioniero in condizioni disumane.

Nella dolorosa desolazione della morte e della distruzione, che valore potrà ancora avere il motivo per cui hai combattuto o hanno combattuto altri a tuo nome, esponendoti al disastro? Quel valore non ti sarà reso dai tanti che alzano la tua bandiera sulle tastiere. Per non dire di quegli altri, pronti ad attraversare lo schermo per affermare che sei una fiscia sacrificabile o una fake news. E ti mostreranno mentre mangi la Nutella in un caffè di lusso.

Se pure il tuo sacrificio ottiene l’attenzione del mondo, molta parte di questo mondo è distratto, distante, ideologico, paranoico. T’iscrive dentro un conflitto più grande, una guerra fredda o uno scontro di civiltà e diventi il fantasma di un mostro. La tua fine è necessaria per un bene superiore, per qualche valore supremo, sulle orme dei nostri antenati del 1945, evocati ormai anche per giustificare una rissa. Oppure, sulla tua fine il mondo ci fa i soldi, vendendo armi, ruspe, servizi digitali, progetti di ricostruzione. Una parte del mondo manifesterà per te o salperà sulla nave per venirti a salvare, come atto politico e simbolico (onore a loro, perché in effetti rischiano). L’esito finale, però, difficilmente cambierà.

A volte la difesa, la resistenza è autodistruttiva, offre solo il pretesto al tuo carnefice per massacrarti ancora di più. Allora, la rinuncia, la resa, la fuga sono scelte dignitose. Anche la dignità vuole la vita e non la morte. La vita in salute. Ogni genitore ha il dovere di vivere finché i suoi figli non sono adulti e autosufficienti. Tutti i figli hanno il dovere di vivere finché i loro genitori non sono deceduti. La madre, dopo nove mesi di gravidanza e un parto, ha il diritto assoluto di non vedere il proprio figlio neonato spappolato dalle bombe o schiacciato sotto le macerie. E se la vita non si può costruire qui, si può andare altrove. Anche se, è vero che, pure spostarsi nel mondo e trovare accoglienza è diventata una guerra.

Qualcuno obietterà con l’esempio più alto: la Resistenza al nazifascismo. E avrebbe ragione. Ma quella lotta rientrava proprio nei criteri che ho delineato: aveva una ragione giusta e fondamentale; i suoi atti, per quanto duri, miravano a colpire un occupante e un regime oppressivo, cercando di preservare gli inermi; fu, nel suo contesto, efficace e rapida nel conseguire l’obiettivo definito di liberazione, anche grazie a una solidarietà internazionale concreta e determinante. Fu, in sostanza, una forza proporzionata al fine.

Il disimpegno israeliano dalla Striscia di Gaza

Il cosiddetto “disimpegno unilaterale” di Israele da Gaza del 2005 viene spesso presentato come un gesto di pace, vanificato dalla reazione palestinese. In realtà si trattò di una scelta strategica, mirata a rafforzare Israele sul piano interno e internazionale, non a rilanciare un processo negoziale.

Innanzitutto, i coloni israeliani nella Striscia erano circa 8.000, una cifra marginale rispetto alle centinaia di migliaia insediati in Cisgiordania. Il loro mantenimento comportava costi economici e militari sproporzionati. La rimozione rispondeva quindi a un’esigenza di alleggerimento, più che a una concessione.

In secondo luogo, l’evacuazione da Gaza consentiva di concentrare risorse e consenso politico sul consolidamento della Cisgiordania, considerata strategicamente molto più importante. Lo stesso Ariel Sharon dichiarò che il piano avrebbe permesso a Israele di “congelare” la situazione sul terreno.

La logica del congelamento venne esplicitata nell’ottobre 2004 dal consigliere senior di Sharon, Dov Weissglass, in un’intervista a Haaretz del 6 ottobre 2004:

«Il significato del piano di disimpegno è il congelamento del processo di pace, e quando si congela questo processo, si impedisce la creazione di uno Stato palestinese e si impedisce una discussione sui rifugiati, sui confini e su Gerusalemme. […] Di fatto, l’intero pacchetto chiamato Stato palestinese, con tutto ciò che comporta, è stato rimosso a tempo indeterminato dalla nostra agenda. E tutto questo con autorità e permesso, con la benedizione presidenziale e la ratifica di entrambe le Camere del Congresso».

Un terzo aspetto riguarda la politica palestinese: consegnare formalmente Gaza all’Autorità Nazionale Palestinese significava affidarle un compito ingestibile, tra un’economia asfissiata e l’ascesa di Hamas. La divisione tra Hamas e Fatah era prevedibile, e ha consentito a Israele di sostenere che non esiste un interlocutore palestinese unitario e credibile.

Infine, il ritiro non pose fine all’occupazione: Israele mantenne il controllo dello spazio aereo, delle acque territoriali, dei valichi, del registro della popolazione e delle importazioni. Le Nazioni Unite e la Banca Mondiale hanno continuato a considerare Gaza un territorio occupato.

Il disimpegno, dunque, non fu un’offerta mal ripagata dai palestinesi, ma un’operazione unilaterale volta a ridurre i costi, dividere i palestinesi e consolidare il controllo israeliano sulla Cisgiordania, congelando al tempo stesso la prospettiva di uno Stato palestinese.

La resistenza palestinese: a cosa si oppone

La resistenza palestinese si oppone all’occupazione israeliana dei Territori Palestinesi Occupati (la Striscia di Gaza e la Cisgiordania). Una prima e immediata obiezione dice che Gaza non è più territorio occupato, perché Sharon ha ritirato i coloni nel 2005. Tuttavia, Israele ha mantenuto e ulteriormente stretto il controllo sui confini, lo spazio aereo e lo spazio marittimo di Gaza. Motivo per cui, secondo il diritto internazionale, Israele mantiene lo status di stato occupante anche nei confronti di Gaza. Inoltre, dall’ottobre 2023, tutta la Striscia di Gaza è sottoposta a una estrema punizione collettiva. Un massacro su larga scala, la distruzione della gran parte delle infrastrutture civili e dell’agricoltura, il blocco degli aiuti.

Un’obiezione più generale ricorda che la resistenza palestinese è precedente l’occupazione israeliana dei Territori. Inizia dalla costituzione dello stesso Stato d’Israele nel 1948, mentre Gaza era sotto l’Egitto e la Cisgiordania sotto la Giordania. Quindi è lecito pensare che i palestinesi resistono, non solo all’occupazione, ma all’esistenza stessa di Israele. Infatti, non hanno mai cercato di liberarsi dall’Egitto e dalla Giordania. D’altra parte, Hamas, l’organizzazione islamista che dagli anni ‘90 più di altri gruppi si distingue per la resistenza armata, non riconosce lo Stato d’Israele. Anzi ne propugna la fine nel suo statuto fondativo del 1988.

È vero che la resistenza palestinese precede la Guerra dei sei giorni (1967). I primi gruppi armati palestinesi si sono formati negli anni ‘50, per praticare attacchi contro Israele a partire soprattutto dalla Striscia di Gaza. Perché i combattenti palestinesi degli anni ‘50 lottavano contro Israele e non contro l’Egitto e la Giordania? Perché nel 1948 lo Stato di Israele aveva occupato il 78% della Palestina mandataria, espulso circa 700.000 palestinesi e distrutto centinaia di villaggi. Per i palestinesi degli anni ‘50, Israele stessa era l’occupazione e l’espropriazione delle terre palestinesi. La priorità della lotta era il Ritorno. Egitto e Giordania esercitavano una giurisdizione, anche con elementi duri, autoritari e repressivi. Però, non colonizzavano la terra dei palestinesi, non gli demolivano le case, non gli distruggevano gli uliveti, non gli chiudevano le strade, non li fermavano ai check-point, non li arrestavano e non li uccidevano quotidianamente.

Esaurite le generazioni palestinesi vittime della Nakba, la resistenza palestinese viene poi rilanciata e alimentata dall’occupazione israeliana del 1967, che perdura ancora oggi. Un’occupazione fatta di legge militare e colonizzazione. Contro la quale l’insurrezione vera e propria dei palestinesi inizia nel 1987 con la prima intifada. Ciò nonostante, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), nel 1988, riconosce tutte le risoluzioni dell’ONU, quindi anche quella del 1947, che raccomanda la ripartizione della Palestina in uno stato ebraico e in uno stato arabo. E nel 1993, l’OLP sigla gli accordi di Oslo per il riconoscimento reciproco tra Israele e Palestina e per il ritiro graduale di Israele dai Territori Occupati. Accordo disapprovato e sabotato da Hamas e dalla destra israeliana, che arriva a uccidere il primo ministro Rabin.

Quando gli Accordi di Oslo sono ormai naufragati — dopo il fallimento di Camp David (2000) e Taba (2001), il ritorno al governo del Likud con Ariel Sharon (2001) — nel giugno 2003 e nel gennaio 2004 Hamas propone la Hudna: dieci anni di tregua a Israele in cambio di un ritiro completo da tutti i territori occupati, conquistati nella Guerra dei Sei Giorni, e la creazione di uno Stato palestinese in Cisgiordania ed a Gaza. Il leader di Hamas fautore della proposta era Abd al-Aziz al-Rantissi, ucciso dall’IDF il 17 aprile 2004, in un omicidio extragiudiziario.

La Hudna viene poi recepita senza limiti temporali specificati nel nuovo Statuto di Hamas del 2017, là dove dice che «Hamas considera la creazione di uno Stato palestinese pienamente sovrano e indipendente, con Gerusalemme come capitale sulla falsariga del 4 giugno 1967, con il ritorno dei rifugiati e degli sfollati alle loro case da cui sono stati espulsi, come una formula di consenso nazionale». Il 4 giugno 1967 è il giorno precedente la Guerra dei sei giorni. Israele e molti osservatori giudicano il nuovo documento insufficiente, quindi ingannevole, per il mancato riconoscimento esplicito dello Stato d’Israele. Ma con ciò disconoscono la svolta pragmatica e la potenzialità di una evoluzione.

Dopo il nuovo Statuto del 2017, Hamas con gli altri gruppi palestinesi, nel 2018-2019, organizza la “Grande marcia del ritorno”, una manifestazione pacifica settimanale, per ricordare la Nakba e riconquistare l’attenzione internazionale sulla questione palestinese. Israele reagisce con la repressione: 200 palestinesi uccisi, 8.000 feriti.

Oggi, i palestinesi cosa vogliono? Liberare i territori occupati o tutta la Palestina dal fiume al mare? Credo vogliano innanzitutto sopravvivere, restare nel luogo in cui abitano e riguadagnare un minimo di normalità. È molto difficile che i palestinesi possano distinguere tra le due prospettive, nel momento in cui non vedono nessuna prospettiva. Perché i palestinesi della Cisgiordania devono fronteggiare gli attacchi continui dei coloni e i palestinesi di Gaza devono fronteggiare le bombe, una carestia forzata e, forse, un genocidio, come documenta la recente risoluzione dell’International Association of Genocide Scholars (IAGS).

Considerando la grande sproporzione dei rapporti di forza, è molto difficile che possa essere la volontà del più debole a sbloccare la situazione e rilanciare un processo di pace. Il punto è cosa vuole Israele. La destra al governo vuole i Territori senza i palestinesi.

Che il comportamento di una popolazione sia determinato dalle condizioni materiali di vita e dal riconoscimento dei diritti fondamentali, più che dalla religione, l’ideologia o la propaganda, è dimostrato dalla minoranza arabo-israeliana, ovvero i palestinesi con la cittadinanza israeliana. Essi non hanno mai praticato alcuna forma di resistenza armata, hanno sempre lottato per i propri diritti con mezzi legali e pacifici. È questa la prova empirica: dove si riconoscono diritti e dignità, si riduce la resistenza violenta; dove si negano, l’oppressione alimenta la reazione.