Tre dubbi retorici sulla Flotilla

Dubbi sulla Flotilla

L’Avvenire ha ospitato i “tre dubbi scomodi” di Davide Rondoni sulla Global Sumud Flotilla. Cioè, su chi – a suo dire – intenda usare il dolore altrui “per farsi bello e giusto a basso costo”. 1) Se davvero si vogliono portare aiuti umanitari, si usano canali sicuri, non un azzardo incerto. 2) Se invece si vuole provocare uno dei contendenti, si rischia di appoggiare l’altro (Hamas, Iran). 3) Vale allora la differenza tra la testimonianza umanitaria dei cristiani di Gaza, che restano accanto ai più fragili, e l’atto politico della Flotilla, che – rischiando di favorire le dittature – userebbe l’aspetto umanitario.

I tre dubbi, più che scomodi, sono retorici: tre affermazioni critiche e contrarie all’iniziativa della Flotilla.

Il primo dubbio ignora che la Global Sumud Flotilla ha tentato entrambe le strade: la consegna via mare, forzando un blocco illegale, e quella via terra, negoziando attraverso il ministero degli Esteri italiano un corridoio umanitario sicuro. Entrambi i tentativi sono falliti. Il primo perché l’IDF ha assaltato le navi ancora in acque internazionali; il secondo perché Israele ha voluto escludere dalla consegna gli alimenti più nutrienti ed energetici. Se i canali sicuri funzionassero, non ci sarebbe la carestia a Gaza. Quei canali esistono solo se chi detiene il potere li concede. Per Gaza non sono concessi: gli aiuti passano col contagocce e vengono usati come arma di guerra. Chiedere agli attivisti di usare “canali sicuri” significa, in pratica, chiedere loro di non agire affatto.

Il secondo dubbio rovescia la prospettiva della provocazione. Nel diritto, la provocazione è l’atto ingiusto che attenua la colpa di chi reagisce in stato d’ira. Ma tentare di forzare un blocco illegale per consegnare cibo e medicinali non è un atto ingiusto. Rovesciare i ruoli – chi rompe un blocco illegittimo sarebbe il provocatore, chi lo mantiene sarebbe provocato e legittimato a reagire – è lo schema con cui i regimi criminalizzano la disobbedienza civile. Valeva per i Freedom Riders negli Stati Uniti segregazionisti, vale per chi aiutava i migranti nei Balcani, vale per la Flotilla. Essere strumentalizzati è il rischio di ogni iniziativa politica. La lotta contro la guerra in Vietnam poteva favorire l’Unione Sovietica: era forse un buon motivo per rassegnarsi a quella guerra? Gli stessi dubbi di Rondoni possono risultare favorevoli a Israele o al governo Meloni, eppure lui li esprime lo stesso.

Il terzo dubbio è un falso dilemma. I cristiani di Gaza, che restano per assistere la popolazione e rifiutano l’esilio forzato, compiono certamente un atto umanitario che ha valore politico. Allo stesso modo, la Flotilla che disobbedisce a un blocco illegittimo compie un atto politico che ha valore umanitario. In un contesto di guerra e genocidio, il politico e l’umanitario si intrecciano. Chi si oppone a chi pretende di decidere della vita e della morte altrui, agisce insieme sul piano politico e su quello umanitario. Bene, dunque, i cristiani di Gaza; bene gli attivisti della Flotilla.

Questi ultimi, organizzando e conducendo una piccola flotta di barche a vela attraverso il Mediterraneo, si sono esposti fisicamente al rischio di essere uccisi, feriti, torturati, reclusi, e di perdere tutto il loro materiale. Oggi molti di loro sono prigionieri nelle carceri israeliane. Se si sono “fatti belli e giusti”, non è certo a basso costo.

A che pro? A rendere evidente l’arbitrio israeliano nelle acque internazionali e in quelle di Gaza. A mostrare come Israele eserciti il potere illegittimo di fermare con la violenza l’afflusso di aiuti di prima necessità. A obbligare le istituzioni e i governi europei a uscire dall’inerzia, a prendere posizione o ad assumersi la responsabilità della propria complicità. E infine, a mobilitare la società civile: in Italia, da mercoledì sera, le città sono attraversate da scioperi e manifestazioni.

La parte umanitaria del piano Trump

Piano Trump

Spero che Hamas accetti il piano Trump. Non perché lo consideri giusto o equilibrato, ma perché contiene una parte umanitaria che da sola basterebbe a giustificarne l’adesione: cessate il fuoco immediato, liberazione degli ostaggi entro 72 ore, scarcerazione di 1700 prigionieri palestinesi, ripresa degli aiuti dell’ONU, ricostruzione delle reti idriche ed elettriche, degli ospedali e delle attività commerciali distrutte.

Rilevante anche la rinuncia alla deportazione forzata: i civili palestinesi potrebbero lasciare la Striscia se lo volessero, ma non sarebbero obbligati. Occorrerebbe però specificare che a chiunque scelga di partire spetterebbe sempre il diritto al ritorno.

Il nodo più controverso riguarda il futuro governo di Gaza: una “commissione palestinese tecnocratica e apolitica” sotto la supervisione di un “Consiglio della Pace” guidato da Trump e delegato a Tony Blair. In sostanza, un protettorato anglo-americano. Restano inoltre indefiniti i tempi del ritiro israeliano e l’estensione della zona cuscinetto.

Il disarmo di Hamas potrebbe essere positivo per i civili, ma resta una misura imposta dall’esterno. E l’intera proposta ha la forma di un ultimatum: a Hamas sono concessi solo pochi giorni per accettare una resa quasi incondizionata, senza margini di negoziazione, sotto la minaccia di lasciare Israele libero di “finire il lavoro”.

Se mi mettessi nei panni di Hamas, accetterei lo stesso. Sarebbe una sconfitta formalizzata, ma non necessariamente la fine. Le ideologie non muoiono uccise dalle armi: se sopravvivono le cause che le hanno generate, possono trasformarsi e rinascere. Dopo il 1945 il nazifascismo fu schiacciato da una grande alleanza antifascista. Eppure minoranze nostalgiche si riorganizzarono, fecero ancora danni e oggi sono tornate al governo in Italia, si candidano in Germania, hanno un peso rilevante in molti paesi occidentali. Forse sono persino al governo negli Stati Uniti e in Russia. Perché Hamas non dovrebbe avere un futuro, magari in forme diverse, politiche o clandestine?

Nessuna vittoria militare basta, da sola, a risolvere un conflitto politico.

La Flotilla e la memoria di Genova

La Flotilla e la memoria di Genova

Qualcuno ha paragonato la Global Sumud Flotilla del 2025 al movimento noglobal del 2001 con un’accusa odiosa: “oggi come allora cercano il morto”. Non contro chi uccide, ma contro chi si espone.

Al G8 di Genova Berlusconi valutò di isolare i potenti in una nave al largo del porto, ma Bush jr respinse l’idea perché sarebbe sembrata un segno di debolezza. L’idea fu poi seguita negli anni successivi, organizzando il G8 in luoghi irraggiungibili. Ma nel 2001 prevalse ancora la prova di forza: una zona rossa nel cuore della città, blindata dalle forze dell’ordine.

Con una pubblica “dichiarazione di guerra all’impero”, le tute bianche annunciarono che avrebbero cercato di violarla. Non si trattava di un atto violento, ma di un’azione simbolica, come già avvenuto in altre occasioni concordate con la polizia. L’idea aveva un senso: proporre una pratica non distruttiva a chi, giovane e arrabbiato, poteva essere tentato dalla violenza dei blocco nero.

Personalmente ero contrario. Si camminava sul filo del rasoio di fronte a un governo inaffidabile, con dentro una componente che voleva la repressione. Gianfranco Fini sedeva nella “cabina di regia” delle forze dell’ordine, che si rivelarono “mal coordinate” ma spietate.

Il movimento non voleva il morto. Una parte del governo e della sua opinione pubblica, sì. Il ministro dell’interno autorizzò a sparare. Sui giornali di destra e nei forum della prima internet si incitava all’uso delle armi.

Il 20 luglio 2001 Carlo Giuliani fu ucciso. Centinaia di manifestanti pacifici furono pestati selvaggiamente, mentre i black bloc devastavano la città indisturbati.

Non si trattò solo della gestione violenta di una immensa piazza. A bocce ferme successe altrettanto. La notte, alla scuola Diaz, pacifici manifestanti furono aggrediti nel sonno e pestati a sangue dalla polizia in quella che un poliziotto definì “una macelleria messicana”. I manifestanti arrestati furono torturati per giorni nella caserma di Bolzaneto.

Il New York Times parlò della “più grande sospensione dei diritti civili in un paese occidentale dopo la Seconda guerra mondiale”. A 24 anni di distanza, la ferita è ancora aperta.

La Flotilla si trova in una situazione paragonabile solo per un aspetto: anche oggi la controparte è inaffidabile. Netanyahu, in due anni, ha mostrato di poter oltrepassare ogni linea rossa: ha colpito civili palestinesi, giornalisti, operatori umanitari, funzionari ONU, persino stati sovrani.

Non è un’ipotesi astratta. Il 31 maggio 2010, l’IDF abbordò la Freedom Flotilla diretta a Gaza: nove attivisti furono uccisi subito, un decimo morì dopo mesi di coma.

Per questo, pur criticando le proposte di mediazione dell’Italia – che ignorano il diritto internazionale e tacciono sul blocco illegale di Gaza – non pretendo che la Flotilla vada fino in fondo. Capisco chi vuole proseguire e chi vuole ritirarsi.

Hanno già fatto molto e potranno fare ancora tanto. Qualunque scelta compiano, la mia ammirazione e solidarietà rimane intatta.

L’appello di Mattarella alla Flotilla

L'appello di Mattarella alla Flotilla

L’appello di Sergio Mattarella alla Flotilla si distingue dalle dichiarazioni di Giorgia Meloni per tono, registro e contenuti. Il presidente nomina la catastrofe umanitaria di Gaza e, così facendo, critica implicitamente Israele e riconosce il valore solidale dell’iniziativa. Si rivolge ai partecipanti con rispetto: «Mi permetto di rivolgermi con particolare intensità alle donne e agli uomini della Flotilla», scrive, chiedendo loro di accettare la mediazione del patriarcato di Gerusalemme per tutelare la propria incolumità e far giungere gli aiuti a Gaza in sicurezza. È un discorso elegante, persino opposto rispetto agli ordini e alle offese della presidente del Consiglio.

Ma resta un nodo irrisolto: come può lo Stato italiano proteggere i propri cittadini in acque internazionali e, allo stesso tempo, preservare il rapporto con un alleato che li attacca? Come può ribadire il diritto del mare e contestare un blocco illegale senza aprire un conflitto con Israele? Né le parole diplomatiche di Mattarella né quelle truculente di Meloni affrontano questo dilemma.

In modo raffinato, Mattarella sposta comunque sulla Flotilla la responsabilità di evitare lo scontro. Come ha riassunto Maria Elena Delia, portavoce della missione: «Non possiamo chiedere a Israele di non attaccarvi, chiediamo a voi di scansarvi». Il presidente avrebbe potuto premettere che Israele non può colpire cittadini italiani in acque internazionali e ricordare che il blocco di Gaza è illegale.

Nel discorso di Capodanno 2023, parlando dell’Ucraina, Mattarella disse: «La responsabilità ricade interamente su chi ha aggredito e non su chi si difende o su chi lo aiuta a difendersi». Esprimeva così il principio del rifiuto del precedente. Ora, per la libera navigazione e per la tutela del diritto umanitario, quel principio non merita di essere ribadito? Se i droni contro i nostri cittadini in mare fossero russi, lo accetteremmo?

Rivolgendosi solo alla vittima potenziale, il messaggio implicito diventa: “Voi siete l’unica parte su cui possiamo esercitare un’influenza per evitare il disastro. A voi chiediamo un passo indietro”. Il comportamento di Israele, invece, è trattato come un dato di natura: la sua “prevedibile reazione violenta” viene normalizzata e accettata come un confine invalicabile dell’azione politica.

Colpisce l’assenza di un richiamo al diritto internazionale, in particolare all’illegittimità degli attacchi in acque internazionali. È una mancanza grave dal punto di vista della tutela dei cittadini. Anche volendo evitare uno strappo con Israele e Stati Uniti, non può essere solo l’Italia a farsi carico della salvaguardia dell’alleanza: se siamo alleati e non subalterni, l’onere deve essere condiviso.

Il presidente offre alla Flotilla una corona d’alloro morale in cambio del suo ritiro dalla linea del fuoco: una via d’uscita onorevole, ma al prezzo di accettare che la legge del più forte prevalga sul diritto internazionale. Quanto alla mediazione, va ricordato che il patriarcato di Gerusalemme può impegnarsi a consegnare gli aiuti ma non garantirne l’ingresso, perché Israele blocca gran parte dei carichi ai valichi.

Al porto di Genova: dieci container con 300 tonnellate di cibo raccolto da Music for Peace restano bloccati da settimane. Perché? Israele e i suoi intermediari hanno chiesto che venissero tolti dai pacchi biscotti, miele, marmellate e altri alimenti ad alto valore energetico, imponendo anche ai volontari di pagare lo smaltimento e il trasporto aggiuntivo. Condizioni «irricevibili», come le ha definite la ong, che ha preferito bloccare la trattativa piuttosto che accettare di trasformarsi in complice di un meccanismo che affama Gaza.

Non è un episodio isolato: i divieti sui datteri perché considerati “cibo di lusso” o sulle patate perché “si conservano troppo a lungo” mostrano come Israele stia usando la fame in modo deliberato, burocratico, scientifico. E se l’Europa e l’Italia accettano queste regole, pur di far arrivare qualche briciola, finiscono per legittimare l’arma più crudele. In queste condizioni, la mediazione meglio intenzionata rischia di ridursi a un inganno per l’opinione pubblica.

Droni e Meloni contro la Flotilla

Il 24 settembre 2025, undici imbarcazioni della Global Sumud Flotilla, incluse alcune battenti bandiera italiana, sono state attaccate in acque internazionali a sud di Creta. Si tratta del terzo attacco dall’inizio della missione umanitaria diretta a Gaza. Gli organizzatori hanno accusato Israele di aver utilizzato droni, sostanze chimiche non identificate e sistemi di disturbo delle comunicazioni radio.

Di fronte all’episodio, le reazioni sono state divergenti: l’Alto commissariato ONU per i diritti umani ha chiesto un’indagine indipendente, e il ministro della Difesa Guido Crosetto ha ordinato alla fregata italiana Fasan di prestare assistenza, seguito da misure simili della Spagna. Tuttavia, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha definito l’iniziativa della Flotilla “pericolosa e irresponsabile, finalizzata a creare problemi al governo”, e ha esortato gli attivisti a consegnare gli aiuti a Cipro per una distribuzione mediata dal patriarcato latino di Gerusalemme.

Il dilemma del governo italiano è evidente: da un lato, il dovere di proteggere i propri cittadini (tra cui anche parlamentari); dall’altro, la scelta strategica dell’allineamento con USA e Israele. La dichiarazione di Meloni tenta di risolvere questa tensione spostando la responsabilità sugli attivisti stessi: il messaggio implicito è che, mettendosi volontariamente in pericolo, le conseguenze siano principalmente una loro responsabilità.

Tuttavia, le parole ostili della presidente del consiglio non sono solo una presa di distanza. Esse aumentano il pericolo per la Flotilla. L’ attacco verbale di Meloni da New York, dopo l’ attacco armato dei droni in acque internazionali, delegittima l’azione umanitaria e legittima le azioni israeliane. Il segnale trasmesso è duplice: a Israele e USA assicura la continuità dell’allineamento; alla Flotilla, che non può contare sulla protezione dello Stato italiano.

La domanda retorica di Meloni – “Dobbiamo dichiarare guerra a Israele?” – è una strategia comunicativa che polarizza il dibattito tra due estremi. Questa reductio ad absurdum elimina tutte le sfumature della diplomazia (proteste formali, azioni legali, pressioni multilaterali) e nasconde la vera questione: come tutelare i cittadini attaccati da un alleato senza minare il rapporto strategico? Sostituendo una domanda difficile con una assurda, il governo evita di affrontare il problema nel merito.

Anche la mediazione italiana proposta (Cipro-Ashdod-Gaza) è rivelatrice. Il suo rigetto da parte della Flotilla è stato letto da Israele come una prova della “natura provocatoria” della missione. In realtà, la proposta ignora la radice del problema: la carestia forzata a Gaza è causata proprio dal blocco israeliano, già definito illegale da numerosi giuristi e condannato dal Consiglio ONU per i diritti umani dopo l’attacco alla Mavi Marmara del 2010, che questa mediazione avrebbe implicitamente riconosciuto come legittimo. Accettare significherebbe vanificare lo scopo politico della Flotilla: denunciare il blocco israeliano e l’immobilismo internazionale.

Riconoscere lo Stato di Palestina

Il riconoscimento dello Stato di Palestina

Secondo la Convenzione di Montevideo del 1933, perché uno Stato sia riconosciuto deve avere tre requisiti: un popolo, un territorio, un governo. La Palestina li possiede: il popolo palestinese, i territori di Gaza e Cisgiordania, il governo legittimo dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP).

Quasi tutti i paesi del mondo, fuori dall’Occidente, hanno già riconosciuto la Palestina. Ora, per iniziativa della Francia, anche diversi paesi occidentali hanno compiuto questo passo: Portogallo, Regno Unito, Canada e Australia. Il Belgio si appresta a farlo.

Il governo israeliano è fermamente contrario, sostenendo che il riconoscimento della Palestina equivarrebbe a premiare il terrorismo di Hamas e che uno Stato palestinese costituirebbe una minaccia permanente alla sicurezza di Israele. Molti sostenitori di Israele aggiungono che un riconoscimento oggi sarebbe inutile, senza effetto pratico; semmai dovrebbe essere il coronamento di un processo di pace.

In Italia, incalzata dalle opposizioni, Giorgia Meloni propone una risoluzione parlamentare che subordina il riconoscimento della Palestina alla liberazione degli ostaggi e all’esclusione di Hamas dal futuro governo palestinese. Una posizione che sembra più un pretesto per rinviare il riconoscimento e, al tempo stesso, mostrarsi disponibile per non restare isolata mentre una parte dell’Europa e l’opinione pubblica si spostano verso la causa palestinese.

Questo spostamento diplomatico e popolare non nasce, è ovvio, dal desiderio di ricompensare il terrorismo, ma dalla necessità di arginare la distruzione della società palestinese. Il governo israeliano vuole imporre un fatto compiuto: svuotare o rendere invivibile la Striscia di Gaza, espandere i coloni in Cisgiordania, rendere impossibile la nascita di uno Stato palestinese. Gli Usa di Trump lasciano fare. La Francia di Macron, invece, promuove un’iniziativa diplomatica per contrastare questa strategia e salvare la prospettiva di uno Stato palestinese.

L’idea che la Palestina, una volta riconosciuta, sarebbe solo una base terroristica è essa stessa una visione terroristica. Non considera che il consenso al terrorismo nasce proprio dalla negazione dei diritti: il diritto all’autodeterminazione e, con esso, la possibilità di muoversi, avere una casa, lavorare, commerciare, costruire una comunità, non essere fermati, imprigionati, uccisi in modo arbitrario. Realizzata l’aspirazione nazionale palestinese, verrebbe meno anche il principale terreno su cui cresce il sostegno a organizzazioni che attaccano Israele.

Lo sciopero generale delle Usb per Gaza. Il framing della violenza

Lo sciopero generale Usb per Gaza. Roma stazione Termini bloccata.

Oltre mezzo milione di persone in più di 70 città italiane hanno partecipato allo sciopero generale indetto dai sindacati di base in solidarietà con la popolazione palestinese. La mobilitazione ha coinvolto molti settori: dai trasporti alle scuole, dai porti ai servizi. A Genova i lavoratori portuali hanno bloccato il traffico di armi diretto a Israele, impedendo a una nave sospetta di attraccare per tutta la giornata. A Roma decine di migliaia di persone hanno sfilato da Termini fino alla tangenziale, a Bologna i cortei hanno invaso autostrada e raccordo, mentre a Torino e Napoli i manifestanti hanno occupato i binari delle stazioni centrali.

Il caso più discusso è stato però quello di Milano, dove un gruppo di manifestanti ha tentato di entrare nella stazione Centrale ed è stato respinto dalla polizia. Ne sono seguiti scontri e contusi. Episodi minoritari, ma molto visibili, che hanno finito per catalizzare l’attenzione mediatica e politica.

La premier Giorgia Meloni e il centrodestra hanno condannato con durezza le violenze, parlando di “atti di teppismo” che non aiutano la causa palestinese. Le opposizioni hanno replicato chiedendo di distinguere tra la stragrande maggioranza pacifica e la piccola frangia violenta. Elly Schlein e Giuseppe Conte hanno accusato Meloni di sottrarsi al confronto parlamentare sulla linea del governo rispetto a Gaza.

La dinamica non è nuova. Ogni volta che un movimento di massa scende in piazza, si ripete un copione collaudato. C’è una mobilitazione ampia, trasversale e pacifica, che rappresenta una protesta legittima. Una piccola parte compie gesti violenti o dimostrativi, a volte provocata, a volte provocatoria. I poteri politici e mediatici ostili spostano subito il focus su questi episodi, fino a farne l’immagine dominante della protesta. La minoranza violenta diventa così il volto dell’intero movimento, mentre chi non prende le distanze in modo netto viene accusato di complicità. Intanto, le questioni sostanziali – in questo caso il traffico di armi e la posizione italiana sulla guerra a Gaza – scivolano sullo sfondo.

I media studies chiamano questo meccanismo “framing della violenza”: trasformare lo scontro con la polizia in titolo e foto di apertura, riducendo una mobilitazione di mezzo milione di persone a poche decine di incidenti. È anche una “strategia della marginalizzazione”: legittimare la repressione, spaventare l’opinione pubblica moderata, delegittimare le istanze del movimento senza affrontarle.

Il meccanismo funziona perché semplifica: ordine contro caos, forze dell’ordine contro “teppisti”. Così il governo evita di rispondere su questioni scomode come il transito di armi dal porto di Genova o la linea diplomatica italiana verso Israele.

Per questo la reazione delle opposizioni diventa decisiva: distinguere tra la maggioranza pacifica e le frange violente significa riportare il dibattito al cuore politico della protesta. È la posta in gioco: ridurre tutto a un problema di ordine pubblico o discutere finalmente di Gaza e del ruolo dell’Italia.

Il ghetto rovesciato

Arco costituzionale. Dialogo politico. Political correctness. Polarizzazione politica. Crisi della sinistra / Crisi dei valori democratici.

Per molto tempo ho difeso il principio dell’arco costituzionale: c’erano forze legittimate a competere nella dialettica democratica, e c’era un’area fascista esclusa e ghettizzata all’estrema destra, con la quale non si parlava. Ancora nel 1997 ero contrario al primo faccia a faccia televisivo tra Fausto Bertinotti e Gianfranco Fini.

Poi, tra il 1998 e il 1999, ho cominciato a navigare in Internet. Nei gruppi di discussione incontravo fascisti, nazisti, comunitaristi, indipendentisti padani, mascolinisti, negazionisti, rosso-bruni antelitteram. Mi incuriosivano, ci discutevo, pur pensando che con loro non bisognava parlare.

Ma ciò che mi spiazzava di più erano le persone “normali”, liberal-conservatrici o liberal-democratiche, convinte che fossero giusti i bombardamenti della Nato sulla Serbia nel 1999 senza l’autorizzazione dell’ONU. Secondo loro, colpire i civili era inevitabile, oppure giustificato dal fatto che i serbi avevano eletto Milosevic.

Lo stesso copione tornava altrove. Liberali che sostenevano la repressione del movimento “no-global”, che dopo l’11 settembre criminalizzavano i musulmani, che durante la seconda intifada disprezzavano la vita dei palestinesi, che dicevano di essere contro le discriminazioni ma approvavano politiche restrittive contro migranti e rom.

Mantenevo la convinzione che sessismo e razzismo non dovessero essere tollerati. Ma ormai civiltà e barbarie si erano intrecciate in modo indissolubile. I miei steccati perdevano senso. Continuare a tenerli alzati mi dava l’impressione di ritrovarmi in una situazione rovesciata: mentre loro, da posizioni dominanti e “rispettabili”, dettavano l’agenda, nel ghetto c’ero finito io.

Sanzioni europee a Israele, l’UE mette un piede nell’acqua fredda

Sanzioni europee a Israele, l'UE mette un piede nell'acqua fredda

Sulle sanzioni europee a Israele, il giudizio della maggioranza dell’opinione pubblica è severo e, in gran parte, fondato. Le sanzioni arrivano dopo quasi due anni di guerra, decine di migliaia di morti palestinesi, una società devastata. Bruxelles si è mossa solo dopo le proteste in mezza Europa e il rapporto ONU che ha parlato di genocidio. Infatti, il pacchetto proposto è fragile: colpisce solo il 37% delle esportazioni israeliane, lasciando fuori settori cruciali come high-tech e difesa. L’impatto stimato – 227 milioni di euro l’anno – è irrisorio rispetto ai miliardi di aiuti statunitensi. Non c’è embargo sulle armi, non ci sono misure su tecnologia e cybersecurity, mentre le sanzioni personali contro i ministri estremisti Ben Gvir e Smotrich sono più simboliche che reali. In più, le divisioni interne all’UE rischiano di bloccare tutto: basta il veto di Orbán a rendere impossibili le misure individuali, mentre senza Italia o Germania non si raggiunge la maggioranza per quelle commerciali.

La Spagna ha chiesto molto di più: sospensione dell’accordo di associazione con Israele, embargo totale sulle armi, sanzioni mirate ai leader israeliani responsabili delle violazioni. Una linea condivisa con Irlanda e Paesi Bassi, che rompe l’immobilismo europeo. La Commissione, invece, ha scelto la prudenza, temendo ritorsioni americane e proteggendo i propri interessi strategici. Resta il fatto che, a livello europeo, la posizione spagnola è minoritaria e incontra ostacoli enormi. Persino in patria il governo subisce critiche: le parole a Bruxelles non si sono ancora tradotte in atti concreti come lo stop unilaterale al commercio di armi.

Il giudizio severo sulla proposta di sanzioni UE, per quanto fondato, rischia però di essere totale, senza non cogliere un barlume di positività: l’importanza del gesto politico nonostante la mancanza di una efficacia immediata. Perché se è vero che queste sanzioni non fermeranno la guerra, è altrettanto vero che segnano una rottura con anni di paralisi europea. Qualcosa di buono nelle proposte UE si può fare lo sforzo di vedere. Per la prima volta, l’UE riconosce formalmente che Israele viola l’articolo 2 dell’accordo di associazione, che impone il rispetto dei diritti umani. È un precedente giuridico importante, che in futuro potrà essere invocato per misure più dure. C’è poi il valore simbolico: l’Europa, pur tra mille contraddizioni, rompe un tabù e mette in discussione le relazioni privilegiate con Israele. Questo alimenta il dibattito pubblico, costringe governi riluttanti come Germania e Italia a esporsi, e legittima la pressione della società civile. Si tratta insomma di un primo passo timido e inefficace, che difficilmente cambierà la linea di Netanyahu. Ma la sua importanza sta altrove: nel creare un precedente, nell’aprire una discussione, nel mostrare che anche l’UE non può più restare immobile.

L’ONU certifica il genocidio a Gaza

L’ONU certifica il genocidio a Gaza

La Commissione indipendente di inchiesta dell’ONU sui Territori palestinesi occupati ha concluso, dopo due anni di indagini, che a Gaza si stanno realizzando atti qualificabili come genocidio ai sensi della Convenzione del 1948. Nel rapporto, pubblicato il 16 settembre 2025, si riconosce che Israele ha commesso quattro delle cinque condotte tipiche del genocidio: uccidere membri del gruppo; causare gravi lesioni fisiche e mentali ai membri del gruppo; sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita calcolate per portarlo alla distruzione fisica, totale o parziale; imporre misure volte a prevenire le nascite all’interno del gruppo.

Elemento decisivo è l’intenzionalità genocidaria. La Commissione afferma che le autorità israeliane intendevano uccidere il maggior numero possibile di palestinesi, consapevoli che le strategie adottate – bombardamenti massicci in aree densamente abitate, blocco di cibo, acqua e medicinali, attacchi a ospedali, rifugi e convogli di evacuazione – avrebbero provocato morti di massa, inclusi bambini. Le vittime, si sottolinea, sono state colpite non come singoli individui ma in quanto palestinesi, cioè membri di un gruppo nazionale protetto dal diritto internazionale.

Il rapporto colloca la guerra di Gaza in un quadro storico più ampio: decenni di occupazione e colonizzazione, pratiche di apartheid e negazione del diritto all’autodeterminazione. L’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 è qualificato come crimine di guerra, ma la Commissione osserva che non costituiva una minaccia esistenziale per Israele e non può giustificare operazioni militari tese alla “vendetta e punizione collettiva”. Obiettivi dichiarati come la liberazione degli ostaggi e la neutralizzazione di Hamas, si legge, hanno mascherato lo scopo reale: la distruzione della comunità palestinese di Gaza.

Nelle raccomandazioni finali, la Commissione chiede a Israele di interrompere immediatamente le pratiche genocidarie e dichiarare un cessate il fuoco, e agli Stati terzi di adottare un embargo militare, collaborare con le corti internazionali e intervenire per fermare le violazioni. Il rapporto, che sarà presentato all’Assemblea generale a ottobre, rappresenta il primo riconoscimento formale da parte di un organo delle Nazioni Unite della responsabilità statale di Israele per genocidio a Gaza.

La Commissione è composta da tre esperti indipendenti di fama internazionale:

  • Navi Pillay, presidente della Commissione. Giurista, già Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (2008-2014) e giudice presso la Corte penale internazionale per il Ruanda (ICTR) e la Corte penale internazionale (CPI). Figura di massimo rilievo nel diritto internazionale e nei meccanismi di giustizia transnazionale;
  • Miloon Kothari, relatore speciale ONU sul diritto a un alloggio adeguato (2000-2008), architetto e pianificatore urbano, impegnato da decenni nei movimenti internazionali per i diritti economici, sociali e culturali;
  • Chris Sidoti, giurista e attivista per i diritti umani, già Commissario australiano per i diritti umani e membro di diverse indagini e missioni ONU, con lunga esperienza nelle organizzazioni non governative e nei sistemi di monitoraggio internazionale.