Riconoscere lo Stato di Palestina

Il riconoscimento dello Stato di Palestina

Secondo la Convenzione di Montevideo del 1933, perché uno Stato sia riconosciuto deve avere tre requisiti: un popolo, un territorio, un governo. La Palestina li possiede: il popolo palestinese, i territori di Gaza e Cisgiordania, il governo legittimo dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP).

Quasi tutti i paesi del mondo, fuori dall’Occidente, hanno già riconosciuto la Palestina. Ora, per iniziativa della Francia, anche diversi paesi occidentali hanno compiuto questo passo: Portogallo, Regno Unito, Canada e Australia. Il Belgio si appresta a farlo.

Il governo israeliano è fermamente contrario, sostenendo che il riconoscimento della Palestina equivarrebbe a premiare il terrorismo di Hamas e che uno Stato palestinese costituirebbe una minaccia permanente alla sicurezza di Israele. Molti sostenitori di Israele aggiungono che un riconoscimento oggi sarebbe inutile, senza effetto pratico; semmai dovrebbe essere il coronamento di un processo di pace.

In Italia, incalzata dalle opposizioni, Giorgia Meloni propone una risoluzione parlamentare che subordina il riconoscimento della Palestina alla liberazione degli ostaggi e all’esclusione di Hamas dal futuro governo palestinese. Una posizione che sembra più un pretesto per rinviare il riconoscimento e, al tempo stesso, mostrarsi disponibile per non restare isolata mentre una parte dell’Europa e l’opinione pubblica si spostano verso la causa palestinese.

Questo spostamento diplomatico e popolare non nasce, è ovvio, dal desiderio di ricompensare il terrorismo, ma dalla necessità di arginare la distruzione della società palestinese. Il governo israeliano vuole imporre un fatto compiuto: svuotare o rendere invivibile la Striscia di Gaza, espandere i coloni in Cisgiordania, rendere impossibile la nascita di uno Stato palestinese. Gli Usa di Trump lasciano fare. La Francia di Macron, invece, promuove un’iniziativa diplomatica per contrastare questa strategia e salvare la prospettiva di uno Stato palestinese.

L’idea che la Palestina, una volta riconosciuta, sarebbe solo una base terroristica è essa stessa una visione terroristica. Non considera che il consenso al terrorismo nasce proprio dalla negazione dei diritti: il diritto all’autodeterminazione e, con esso, la possibilità di muoversi, avere una casa, lavorare, commerciare, costruire una comunità, non essere fermati, imprigionati, uccisi in modo arbitrario. Realizzata l’aspirazione nazionale palestinese, verrebbe meno anche il principale terreno su cui cresce il sostegno a organizzazioni che attaccano Israele.

Sanzioni europee a Israele, l’UE mette un piede nell’acqua fredda

Sanzioni europee a Israele, l'UE mette un piede nell'acqua fredda

Sulle sanzioni europee a Israele, il giudizio della maggioranza dell’opinione pubblica è severo e, in gran parte, fondato. Le sanzioni arrivano dopo quasi due anni di guerra, decine di migliaia di morti palestinesi, una società devastata. Bruxelles si è mossa solo dopo le proteste in mezza Europa e il rapporto ONU che ha parlato di genocidio. Infatti, il pacchetto proposto è fragile: colpisce solo il 37% delle esportazioni israeliane, lasciando fuori settori cruciali come high-tech e difesa. L’impatto stimato – 227 milioni di euro l’anno – è irrisorio rispetto ai miliardi di aiuti statunitensi. Non c’è embargo sulle armi, non ci sono misure su tecnologia e cybersecurity, mentre le sanzioni personali contro i ministri estremisti Ben Gvir e Smotrich sono più simboliche che reali. In più, le divisioni interne all’UE rischiano di bloccare tutto: basta il veto di Orbán a rendere impossibili le misure individuali, mentre senza Italia o Germania non si raggiunge la maggioranza per quelle commerciali.

La Spagna ha chiesto molto di più: sospensione dell’accordo di associazione con Israele, embargo totale sulle armi, sanzioni mirate ai leader israeliani responsabili delle violazioni. Una linea condivisa con Irlanda e Paesi Bassi, che rompe l’immobilismo europeo. La Commissione, invece, ha scelto la prudenza, temendo ritorsioni americane e proteggendo i propri interessi strategici. Resta il fatto che, a livello europeo, la posizione spagnola è minoritaria e incontra ostacoli enormi. Persino in patria il governo subisce critiche: le parole a Bruxelles non si sono ancora tradotte in atti concreti come lo stop unilaterale al commercio di armi.

Il giudizio severo sulla proposta di sanzioni UE, per quanto fondato, rischia però di essere totale, senza non cogliere un barlume di positività: l’importanza del gesto politico nonostante la mancanza di una efficacia immediata. Perché se è vero che queste sanzioni non fermeranno la guerra, è altrettanto vero che segnano una rottura con anni di paralisi europea. Qualcosa di buono nelle proposte UE si può fare lo sforzo di vedere. Per la prima volta, l’UE riconosce formalmente che Israele viola l’articolo 2 dell’accordo di associazione, che impone il rispetto dei diritti umani. È un precedente giuridico importante, che in futuro potrà essere invocato per misure più dure. C’è poi il valore simbolico: l’Europa, pur tra mille contraddizioni, rompe un tabù e mette in discussione le relazioni privilegiate con Israele. Questo alimenta il dibattito pubblico, costringe governi riluttanti come Germania e Italia a esporsi, e legittima la pressione della società civile. Si tratta insomma di un primo passo timido e inefficace, che difficilmente cambierà la linea di Netanyahu. Ma la sua importanza sta altrove: nel creare un precedente, nell’aprire una discussione, nel mostrare che anche l’UE non può più restare immobile.

L’ONU certifica il genocidio a Gaza

L’ONU certifica il genocidio a Gaza

La Commissione indipendente di inchiesta dell’ONU sui Territori palestinesi occupati ha concluso, dopo due anni di indagini, che a Gaza si stanno realizzando atti qualificabili come genocidio ai sensi della Convenzione del 1948. Nel rapporto, pubblicato il 16 settembre 2025, si riconosce che Israele ha commesso quattro delle cinque condotte tipiche del genocidio: uccidere membri del gruppo; causare gravi lesioni fisiche e mentali ai membri del gruppo; sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita calcolate per portarlo alla distruzione fisica, totale o parziale; imporre misure volte a prevenire le nascite all’interno del gruppo.

Elemento decisivo è l’intenzionalità genocidaria. La Commissione afferma che le autorità israeliane intendevano uccidere il maggior numero possibile di palestinesi, consapevoli che le strategie adottate – bombardamenti massicci in aree densamente abitate, blocco di cibo, acqua e medicinali, attacchi a ospedali, rifugi e convogli di evacuazione – avrebbero provocato morti di massa, inclusi bambini. Le vittime, si sottolinea, sono state colpite non come singoli individui ma in quanto palestinesi, cioè membri di un gruppo nazionale protetto dal diritto internazionale.

Il rapporto colloca la guerra di Gaza in un quadro storico più ampio: decenni di occupazione e colonizzazione, pratiche di apartheid e negazione del diritto all’autodeterminazione. L’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 è qualificato come crimine di guerra, ma la Commissione osserva che non costituiva una minaccia esistenziale per Israele e non può giustificare operazioni militari tese alla “vendetta e punizione collettiva”. Obiettivi dichiarati come la liberazione degli ostaggi e la neutralizzazione di Hamas, si legge, hanno mascherato lo scopo reale: la distruzione della comunità palestinese di Gaza.

Nelle raccomandazioni finali, la Commissione chiede a Israele di interrompere immediatamente le pratiche genocidarie e dichiarare un cessate il fuoco, e agli Stati terzi di adottare un embargo militare, collaborare con le corti internazionali e intervenire per fermare le violazioni. Il rapporto, che sarà presentato all’Assemblea generale a ottobre, rappresenta il primo riconoscimento formale da parte di un organo delle Nazioni Unite della responsabilità statale di Israele per genocidio a Gaza.

La Commissione è composta da tre esperti indipendenti di fama internazionale:

  • Navi Pillay, presidente della Commissione. Giurista, già Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (2008-2014) e giudice presso la Corte penale internazionale per il Ruanda (ICTR) e la Corte penale internazionale (CPI). Figura di massimo rilievo nel diritto internazionale e nei meccanismi di giustizia transnazionale;
  • Miloon Kothari, relatore speciale ONU sul diritto a un alloggio adeguato (2000-2008), architetto e pianificatore urbano, impegnato da decenni nei movimenti internazionali per i diritti economici, sociali e culturali;
  • Chris Sidoti, giurista e attivista per i diritti umani, già Commissario australiano per i diritti umani e membro di diverse indagini e missioni ONU, con lunga esperienza nelle organizzazioni non governative e nei sistemi di monitoraggio internazionale.

Gaza City, l’occupazione che aggrava la catastrofe

Gaza City, l’occupazione israeliana che aggrava la catastrofe

Dal 15-16 settembre l’IDF ha lanciato l’offensiva su Gaza City: in poche ore centinaia di civili sono morti e decine di migliaia si sono messi in fuga lungo la costa verso il sud. Organizzazioni internazionali parlano di una città già in stato di carestia e ora travolta da un esodo forzato, con corridoi umanitari intermittenti e punti di accesso agli aiuti chiusi o inaffidabili. (Reuters)

Le ragioni ufficiali israeliane — smantellare la struttura militare di Hamas, liberare gli ostaggi, ridurre i rischi ai civili — si scontrano con una dura realtà operativa: solo una parte della popolazione è riuscita a evacuare, molte aree restano densamente popolate e ogni avanzata richiede presidi che l’IDF fatica a garantire senza richiamare massicciamente riservisti. Il capo di stato maggiore Eyal Zamir aveva avvertito che l’occupazione su larga scala rischia di mettere in pericolo gli ostaggi e trascinare Israele in una lunga guerriglia urbana. (JPost)

Il risultato più probabile è dunque un paradosso: vittorie tattiche locali accompagnate da perdite umanitarie massicce e nessuna soluzione politica per il “dopo”. A ciò si aggiunge il rischio — denunciato da osservatori e giuristi — che l’obiettivo reale diventi lo svuotamento forzato della città e la riconcentrazione della popolazione nell’estremo sud di Gaza in “campi umanitari”, nella prospettiva dell’espulsione. Una prospettiva respinta dall’Egitto e condannata come illegale dagli organismi internazionali. (Ocha)

Quel che serve ora è chiaro: corridoi umanitari realmente garantiti, uno stop alle evacuazioni forzate e una forte pressione diplomatica internazionale per negoziare un immediato cessate il fuoco che protegga civili e liberi gli ostaggi. Senza una strategia politica credibile, ogni “battaglia definitiva” rischia di ripetersi, lasciando dietro di sé solo più morte e distruzione.

L’omicidio di Charlie Kirk

Sull’omicidio di Charlie Kirk, attivista e influencer della destra statunitense, valgono più di ogni altra cosa le parole del socialista Bernie Sanders, esponente dell’opposizione democratica.

Sull’omicidio di Charlie Kirk, attivista e influencer della destra statunitense, valgono più di ogni altra cosa le parole del socialista Bernie Sanders, esponente dell’opposizione democratica.

«Nonostante fossi in forte disaccordo con lui su quasi tutti i temi, Kirk era un comunicatore e un organizzatore molto efficace, coraggioso nel confrontarsi pubblicamente. Esprimo le mie condoglianze alla famiglia di Kirk e condanno con forza la violenza politica. La libertà e la democrazia non possono basarsi sull’assassinio di funzionari pubblici, sull’intimidazione o sulla violenza contro chi esprime opinioni politiche. L’omicidio di Kirk riflette una pericolosa escalation della violenza politica che mette a rischio la vita pubblica e scoraggia la partecipazione civile. L’essenza della democrazia è la possibilità di avere punti di vista diversi e discuterli senza paura di essere aggrediti o uccisi».

Le parole di Sanders non possono che risuonare in chi crede nella democrazia e nel socialismo.

Di tutt’altro tenore le dichiarazioni del presidente degli Stati Uniti, che ben più di un oppositore dovrebbe tendere all’unità del Paese. Donald Trump ha accusato la “sinistra radicale” di essere responsabile, o almeno di aver creato un clima favorevole all’omicidio di Kirk. Pur non conoscendo identità o movente dell’assassino al momento delle sue dichiarazioni, ha sostenuto che la sinistra demonizza figure come Kirk paragonandole a nazisti e criminali, e che questa retorica alimenta terrorismo e violenza. Ha promesso azioni contro le organizzazioni “colpevoli” di fomentare odio, ignorando al tempo stesso le vittime di matrice opposta.

In Italia Giorgia Meloni ha seguito la stessa linea. Ha reso omaggio a Kirk, definendolo un giovane coraggioso, ma poi ha puntato il dito contro una presunta cultura della sinistra italiana che minimizzerebbe la violenza politica. Ha evocato “falsi maestri in giacca e cravatta” che giustificherebbero l’omicidio, accusando indirettamente l’opposizione di alimentare il clima di odio.

Eppure, Tyler Robinson, sospettato come autore del delitto, non corrisponde al profilo di un attivista di sinistra. Ventiduenne dello Utah, cresciuto in una famiglia Maga e mormona, istruito all’uso delle armi dal padre, studente brillante, senza precedenti penali e con un interesse recente e discontinuo per la politica: il suo profilo contrasta con l’etichetta di “antifascista militante” che la destra ha cercato di appiccicargli.

La strumentalizzazione dell’omicidio di Kirk da parte di Trump e Meloni appare dunque molto forzata. Ma il problema della violenza politica resta reale. Negli Stati Uniti ha già colpito sia repubblicani sia democratici: l’assassinio della parlamentare Melissa Hortman e di suo marito, l’attentato incendiario contro il governatore Josh Shapiro, l’attacco a Donald Trump durante la campagna elettorale. Nel solo 2025 si sono contati circa 150 attacchi di matrice politica, quasi il doppio dell’anno precedente.

Il rischio è che la polarizzazione e la violenza politica degenerino in una guerra civile. La differenza rispetto alle situazioni di violenza politica del passato è che i leader oggi al potere, invece di ricomporre l’unità nazionale, cavalcano la divisione. Alimentano la psicologia della guerra – “noi contro loro” – trasformando il confronto democratico in una lotta esistenziale.

A questa logica occorre sottrarsi. Non bisogna offrire pretesti né lasciarsi trascinare nel gioco della provocazione. La difesa della democrazia passa anche da un linguaggio pubblico responsabile, capace di mantenere aperto lo spazio del confronto civile e di riconoscere nell’avversario non un nemico da abbattere, ma un interlocutore con cui disputarsi il futuro della comunità.

La Russia non si ferma a un distretto in più

Lo sconfinamento della Russia in Polonia: l'analisi di Andrew Spannaus

Il Messaggero ha ospitato un intervento di Andrew Spannaus, analista americano residente in Italia e vicino alle posizioni realiste. Il suo obiettivo è riportare il dibattito sulla Russia dentro coordinate più caute, dopo l’incidente dei droni russi sconfinati in Polonia e le reazioni europee. La tesi è semplice: Mosca non ha interesse a provocare un rafforzamento militare della Nato in Europa orientale, dunque va ridimensionata l’idea della volontà di un futuro attacco russo contro l’Europa.

Spannaus invita a mettere in discussione due assunti che, a suo avviso, drammatizzano l’analisi europea. Il primo riguarda la lettura automatica di ogni azione russa come prova di una strategia aggressiva contro la NATO, per saggiarne le difese o per volerla attaccare in un prossimo futuro. La Russia, sostiene, vuole l’Ucraina ma fatica a controllarne più del 20%: lotta per qualche distretto in più, non per un’escalation oltre i confini ucraini. Inoltre, chiede da anni l’arretramento delle truppe atlantiche dall’Europa orientale: a che scopo, allora, provocare il loro rafforzamento?

Il secondo assunto è quello della guerra ibrida permanente. Qui Spannaus richiama la “dottrina Gerasimov”, nata in realtà da un equivoco dell’analista britannico Mark Galeotti, che coniò l’espressione quasi per scherzo e poi la smentì. Nel suo articolo del 2013, il generale russo non teorizzava alcuna dottrina d’attacco, ma rifletteva su come difendersi dalle interferenze occidentali, comprese le “rivoluzioni colorate”.

La conclusione dell’analista è che gli incidenti di confine, come quello dei droni in Polonia, vadano gestiti con freddezza e razionalità: difendere con fermezza gli alleati NATO sì, ma senza alzare i toni né offrire pretesti per abbandonare la via diplomatica, che resta ancora percorribile. Un richiamo alla prudenza che rievoca le lezioni della Guerra fredda, quando la consapevolezza della “distruzione mutua assicurata” frenò più volte l’escalation.

Queste considerazioni hanno il loro valore. Spannaus ricorda che distinguere tra percezione e realtà è fondamentale per evitare automatismi bellici. E nello smontare la “dottrina Gerasimov” libera il dibattito da un mito persistente. La comparazione con la Guerra fredda, inoltre, sottolinea l’importanza della razionalità nella gestione della deterrenza.

Tuttavia, i limiti sono evidenti. L’analisi riduce la strategia russa a una somma di rivendicazioni territoriali e di resistenze all’allargamento NATO, senza considerare la dimensione ideologica ed espansionista del progetto neo-imperiale di Putin. Nei discorsi dal 2021 in poi, Mosca ha rivendicato la “Novorossija”, delegittimando l’esistenza stessa dell’Ucraina come Stato sovrano.

Anche sul piano della guerra ibrida, la sua lettura rischia di essere riduttiva. Che la “dottrina Gerasimov” sia un mito non significa che la Russia non pratichi tecniche ibride: disinformazione, cyberattacchi, sabotaggi, finanziamenti a partiti anti-UE, impiego di milizie mercenarie in Africa. Negare questa dimensione significa lasciare scoperto un campo dove Mosca ha investito risorse e capacità.

L’argomento secondo cui Putin non avrebbe interesse a provocare la NATO poggia su una logica razionale, ma presuppone che il Cremlino operi sempre secondo un immediato calcolo costi-benefici. L’invasione del 2022 in Ucraina puntando dritto su Kiev, come pure il sostegno ad Assad in Siria, dimostra invece che Putin è pronto a scelte rischiose e costose, persino autolesioniste, quando sono in gioco obiettivi politici o simbolici. La Russia non è sempre guidata dal pragmatismo, e questo va messo in conto.

C’è poi un altro aspetto che l’articolo non considera: la fragilità della NATO oggi. L’Alleanza non è più quella compatta del secolo scorso e neppure solo quella della precedente amministrazione Biden. L’appoggio americano all’Europa ormai non è scontato, e il 47° presidente degli Usa appare più incline a trattare Putin come un partner d’affari che come un nemico strategico. Parlare di deterrenza senza tener conto di questa variabile significa restare ancorati a uno schema passato.

Infine, la prospettiva di Spannaus è centrata interamente su Mosca: non discute come i Paesi confinanti percepiscano la minaccia russa come esistenziale e reclamino garanzie più forti dall’Alleanza. Un elemento cruciale, perché l’unità europea si gioca proprio sulla capacità di rispondere a quelle paure.

In sintesi, l’articolo di Spannaus è utile come antidoto all’allarmismo, ma rischia di sottovalutare la natura profonda e multidimensionale della minaccia russa, anche nelle sue stesse motivazioni difensive. Nelle politiche di potenza, spinte difensive ed espansioniste tendono a confondersi — basti pensare alle guerre israeliane in Medio Oriente. L’Europa ha sì bisogno di prudenza e di diplomazia, ma anche di una visione chiara della posta in gioco, che non si esaurisce in qualche distretto ucraino in più.

Droni russi in Polonia: l’articolo 5 della Nato

Droni russi in Polonia: articolo 5 della NATO e propaganda russa

Sotto l’aspetto tecnico-militare, secondo l’analisi del colonnello Orio Giorgio Stirpe, l’azione russa in Polonia è stata uno sconfinamento con droni disarmati e di bassa potenza, del tipo usato negli attacchi di saturazione. L’obiettivo era sondare le difese NATO e intensificare la guerra ibrida, mirata all’opinione pubblica occidentale, proprio mentre l’Alleanza appare meno coesa a causa di Trump.

Sul piano politico-militare, il colonnello Orio Giorgio Stirpe evidenzia invece l’automaticità della risposta NATO: cuore della dottrina dell’Alleanza e cardine della difesa europea. La guerra ibrida del Cremlino mira a insinuare il dubbio che, in caso di attacco a un membro “minore”, gli altri Paesi inizierebbero a discutere su come reagire, per poi tirarsi indietro.

Un’idea infondata: l’ineluttabilità della risposta militare nasce dalle procedure prefissate del Comando NATO, che prevedono reazioni automatiche a minacce definite. Se i russi sconfinano, le forze NATO li affrontano. E infatti la risposta c’è stata, persino sproporzionata, con F-35 olandesi e un G-550 italiano, anche se solo quattro droni su quattordici sono stati abbattuti.

Ma, si può obiettare, l’automaticità va distinta su due livelli.

  • Militare tattico: sì, esiste, per evitare esitazioni in caso di attacco improvviso
  • Politico-strategico: no, non esiste. L’Articolo 5 obbliga a considerare un attacco a uno come a tutti, ma lascia libertà su come reagire: anche senza usare la forza militare.

La propaganda russa punta soprattutto a far dubitare di quest’ultimo livello: la volontà politica. Perché se la Russia muovesse guerra alla Polonia o a un altro Paese dell’ex area sovietica, gli Stati Uniti di Trump e le principali potenze europee entrerebbero davvero in guerra contro Mosca? La deterrenza della NATO dipende interamente dalla credibilità di questa risposta.

L’attacco israeliano in Qatar

Chi approva l’anomalo attacco israeliano in Qatar vede soltanto il bersaglio: i leader “terroristi” di Hamas.

Chi approva l’anomalo attacco israeliano in Qatar vede soltanto il bersaglio: i leader “terroristi” di Hamas.

Si stupisce che altri non apprezzino l’omicidio mirato come alternativa alla strage, dopo aver tante volte condannato le stragi. Tutto ciò che non riguarda l’eliminazione del nemico viene messo da parte.

I leader di Hamas a Doha sono figure politiche. È tutt’altro che certo che possano essere considerati legittimi obiettivi militari. Il diritto di guerra distingue civili e combattenti, e tutela i leader politici che non svolgono funzioni operative. Colpirli significa compiere esecuzioni extragiudiziarie.

Inoltre, l’attacco ha violato la sovranità del Qatar, estendendo il conflitto a un Paese esterno e lontano dal teatro di guerra. Farlo in un’area civile espone inevitabilmente i civili a rischi, in contrasto con il principio di proporzionalità.

Chi giustifica operazioni di questo tipo interpreta il diritto internazionale in modo spregiudicato, o lo considera una semplice formalità. Ma senza regole, resta solo la legge del più forte. Può sembrare accettabile a chi pensa di giocare la parte del leone, ma i rapporti di forza possono cambiare, oppure l’evoluzione delle armi può neutralizzarli: anche il più debole, se capace di colpire una sola volta, può rendere vana la superiorità dell’altro. La giungla, oggi o domani, è un luogo insicuro per chiunque.

Non è un’astrazione: proprio oggi la Polonia ha visto violato più volte il proprio spazio aereo dai droni russi. Ogni abuso tollerato da uno Stato potente incoraggia altri a fare lo stesso. La forza cieca produce distruzione apparentemente senza senso, come la furia di un uomo che in casa spacca tutto — ma solo le cose degli altri. È questa la logica del terrore: colpire a caso per imporre sottomissione.

Infine, l’attacco in Qatar ha avuto un’altra conseguenza: ha colpito i negoziatori, non soltanto i nemici. I leader di Hamas erano riuniti per valutare la proposta americana di cessate il fuoco, che prevedeva la liberazione di tutti gli ostaggi in un giorno. Eliminare chi era al tavolo ha significato colpire anche i negoziati, e con essi l’ultima possibilità di salvare gli ostaggi.

Per il governo israeliano e per chi lo sostiene, gli ostaggi non sono la priorità. Restano i più vulnerabili, insieme ai civili di Gaza. Ma nella giungla i vulnerabili soccombono: non solo per gli artigli dei leoni, ma anche per la loro indifferenza.

Interloquire sì, associarsi no

La Commissione DuPre (Dubbio e Precauzione), composta da filosofi, scienziati e giuristi, si è formata negli anni della pandemia, a fine 2021. I suoi membri si sono distinti nel mettere in dubbio la pericolosità del coronavirus, la legittimità delle restrizioni sanitarie, l’efficacia dei vaccini. Poiché il confine tra l’esercizio del senso critico e la pratica dello scetticismo è labile, queste persone, secondo me, hanno finito per recitare una parte in commedia, dando voce e rappresentanza a quella parte della società che, sentendosi forte, non voleva assumersi oneri e responsabilità nei confronti della salute pubblica e dei più vulnerabili.

Qualcosa di simile, le stesse persone, la stessa commissione, hanno replicato in relazione all’invasione russa dell’Ucraina, quando il pacifismo si è confuso con la riluttanza ad accettare i costi del sostegno a Kiev e delle sanzioni a Mosca. Sebbene le due situazioni siano diverse — perché in un conflitto geopolitico il giudizio è inevitabilmente più soggettivo che scientifico — si è verificata una sovrapposizione tra mondo novax e mondo filorusso.

Mi dispiacerebbe vedere questa sovrapposizione allargarsi anche al mondo solidale con il popolo palestinese. Questo mondo, infatti, pratica una filosofia opposta: si assume delle responsabilità, è disposto a pagare un prezzo per gli altri. Sulla guerra di Gaza, la parte dei negazionisti la fanno i filoisraeliani, o almeno quella quota di filoisraeliani più acritica nei confronti del governo Netanyahu.

Per questo non mi preoccupa tanto la partecipazione in sé di Francesca Albanese — che ha tutto il diritto e persino il dovere di interloquire con soggetti diversi, per la causa dei diritti umani — quanto il modo in cui la Commissione DuPre la presenta. Nella locandina dell’evento torinese dell’11 settembre 2025, infatti, il suo nome compare accanto a quelli di Cacciari, Mattei e altri membri abituali, senza alcuna distinzione di ruoli. In questo modo si produce l’impressione di un’adesione politica, rafforzata dall’invito a “donare alla DuPre” collocato subito sotto i nomi dei relatori.

Il rischio è che una figura che rappresenta con rigore il diritto internazionale e i diritti umani venga strumentalizzata per conferire legittimità a un fronte segnato, in altre circostanze, da derive complottiste e negazioniste. Interloquire sì, dunque, ma senza che la comunicazione trasformi il dialogo in un’associazione indebita.

Tre inganni sul genocidio di Gaza

Tre sono gli argomenti ingannevoli dell’articolo di Ernesto Galli Della Loggia contro l’uso della parola “genocidio” per definire quanto Israele sta facendo a Gaza.

Il primo è fingere che “genocidio” sia solo una parola bandiera agitata da una nicchia movimentista e poi adottata da tutti in coro. Come se non esistesse una causa aperta alla Corte Internazionale di Giustizia, che ha ammesso la plausibilità del genocidio e ordinato a Israele di prevenirlo. Come se non ci fossero rapporti ONU e ONG, o un dibattito storico e giuridico documentato. Si può non condividere l’uso del termine, ma ignorarne la plausibilità e ridurre tutto a un riflesso emotivo o malevolo è una scelta che rivela debolezza, non rigore.

Il secondo è scivolare nel sarcasmo, dopo aver rifiutato di prendere sul serio le tesi avversarie. Allora Israele, “stato genocida”, sarebbe inefficiente rispetto alla Germania nazista perché ha ucciso solo 60 mila persone in due anni, invece di milioni. Ma il genocidio non si misura in quantità di morti: la differenza non sta nei mezzi ma nel contesto. La Germania agì dentro una guerra totale, senza diritto internazionale codificato, senza opinione pubblica libera, senza alleati democratici da cui dipendere. Israele invece è vincolato da tutti questi fattori, e se intende spingere verso la distruzione del popolo palestinese deve farlo in modo mitigato e graduale.

Il terzo è assumere la Shoah come unico modello genocida e farne un’asticella al di sotto della quale non può esserci genocidio. Ma la memoria della Shoah non serve a fissare un metro di misura, bensì a riconoscere e prevenire ogni progetto di deumanizzazione e distruzione. Altri genocidi di entità numericamente inferiore – dal Ruanda a Srebrenica (riconosciuto genocidio dalla Corte internazionale nel 2007) – non hanno banalizzato Auschwitz, ma hanno mostrato che il crimine può assumere forme diverse. Ogni genocidio è eccezionale. L’alternativa è considerare “normale” Gaza, come semplice sfondo alle notizie quotidiane.

L’uso del termine “genocidio” deve misurarsi con la definizione della Convenzione ONU del 1948: «atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso». È plausibile riconoscervi il caso palestinese: Israele percepisce i palestinesi come minaccia demografica, rifiuta sia i due Stati sia lo Stato unico binazionale, e ormai perfino lo status quo di apartheid, giudicato insostenibile dopo il 7 ottobre 2023. Restano la pulizia etnica e il genocidio. Forse non condivisi integralmente dai vertici israeliani, ma certo presenti come opzione politica e, da quel che vediamo, come pratica sul terreno.

L’uso di termini quali “strage”, “massacro”, “eccidio” proposti dall’autore in alternativa a “genocidio” sono spesso usati per descrivere azioni violente e concentrate nel tempo. Come l’attacco del 7 ottobre, che non a caso nominiamo con la data di un giorno. Questi termini non rendono invece conto di un’azione prolungata per anni in forme che tendono alla distruzione totale delle condizioni materiali di vita di un intero popolo.

Se si è in dubbio, non è obbligatorio assumere una posizione netta e definitiva adesso. Serve esprimersi e agire per fermare l’azione militare contro la popolazione di Gaza, altrimenti il genocidio, se non c’è, ci sarà. Il pericolo è riconosciuto anche da voci che negano la definizione: Liliana Segre e Benny Morris, intervistati per contraddire David Grossman, hanno ammesso che quando si arriva ad affamare e a uccidere in massa la popolazione, il rischio di genocidio c’è.

Non banalizzare il dibattito, dunque, ma riconoscere almeno la plausibilità del genocidio e l’imperativo di prevenirlo.