I prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane

I prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane

Dopo lo scambio dei prigionieri del 13 ottobre 2025 — in cui Israele ha rilasciato circa duemila reclusi palestinesi in cambio di venti ostaggi israeliani detenuti da Hamas — il numero complessivo di palestinesi nelle carceri israeliane è sceso a circa 9.100–9.400 persone. Prima di questo accordo, a inizio ottobre, i detenuti erano circa 11.056, secondo le organizzazioni HaMoked e Mondoweiss, anche se le cifre possono variare per nuovi arresti, rilasci o decessi in custodia: almeno 77 palestinesi sono morti dal 7 ottobre 2023.

Le prigioni e la geografia della detenzione

I prigionieri palestinesi sono rinchiusi in diverse strutture del Servizio Penitenziario Israeliano, spesso lontane dai territori occupati, il che rende difficili le visite familiari. Tra le principali: Ofer vicino a Ramallah, usata per detenzioni amministrative e processi militari; Ktzi’ot nel Negev, una delle più grandi, che ospita migliaia di detenuti inclusi quelli da Gaza; Nafha, anch’essa nel Negev, nota per le condizioni severe; Megiddo nel nord, dove sono rinchiusi molti minori e prigionieri della Cisgiordania; Ramon per i casi di alto profilo; Damon, nel nord, dedicata soprattutto alle donne. A queste si aggiungono Gilboa, Ashkelon, Hasharon, Hadarim e la base militare di Sde Teiman, dove sono detenuti palestinesi di Gaza classificati come “combattenti illegali”.

Composizione e profili dei detenuti

La maggior parte dei prigionieri è composta da uomini adulti, che rappresentano il 95-98% del totale. Le donne sono tra 40 e 80, inclusa almeno una detenuta di Gaza, Siham Abu Salem. I minori, tra 200 e 300, vengono spesso arrestati per azioni come il lancio di pietre o la partecipazione a proteste, con detenzioni medie di 16-17 giorni.

Circa il 25-30% dei detenuti da Gaza è considerato miliziano o affiliato a gruppi armati come Hamas o Jihad Islamica, mentre il 70-75% sono civili comuni, fermati per proteste, legami politici o senza accuse precise. In generale, il 40% degli uomini palestinesi sotto occupazione è passato almeno una volta per il carcere israeliano.

Condanne e detenzioni amministrative

Solo il 15-20% dei detenuti ha ricevuto una condanna vera e propria, con pene da pochi mesi all’ergastolo per reati di sicurezza giudicati da corti militari. Il 30-35% è in detenzione amministrativa, senza processo o accuse formali, basata su presunte prove segrete e rinnovabile ogni 3-6 mesi. Il resto è in attesa di giudizio o sotto indagine.

La durata media della detenzione amministrativa è di un anno, ma può prolungarsi indefinitamente. Le condanne variano da 1-5 anni per casi minori a oltre 10 anni per i miliziani. I minori restano in media 16-17 giorni, mentre la durata complessiva di un ciclo di detenzione è di 1-2 anni, con casi estremi fino a 24 anni.

Dal 1967, anno dell’occupazione di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est, almeno un milione di palestinesi sono passati per le carceri israeliane — secondo Addameer e il Palestinian Prisoners’ Society — in quella che molte organizzazioni per i diritti umani definisce una forma di controllo sistematico dell’occupazione.

Condizioni di vita e abusi documentati

Le condizioni di detenzione sono drammaticamente peggiorate dopo il 7 ottobre 2023. Testimonianze e rapporti di Human Rights Watch, Amnesty International e B’Tselem descrivono abusi sistematici, sovraffollamento e privazioni: percosse, legature estreme, umiliazioni fisiche e verbali, esposizione a rumori assordanti per giorni, e — in casi documentati — stupri di gruppo e violenze sessuali, soprattutto nella base di Sde Teiman, definita da osservatori ONU un “campo di tortura”.

Almeno 75 palestinesi, inclusi bambini e donne, sono morti in detenzione dal 2023, spesso per malnutrizione, torture o mancanza di cure mediche. Esperti ONU parlano di “crimini contro l’umanità”, denunciando un clima di impunità totale: le indagini israeliane sono rare e inefficaci, in violazione delle Convenzioni di Ginevra e della Convenzione contro la Tortura.

Sovraffollamento e privazioni materiali

Le carceri israeliane non sono più in grado di contenere i detenuti. Già prima del 2023, celle progettate per 5-6 persone ne ospitavano fino a 12; oggi, con oltre 9.000 palestinesi rinchiusi, il Servizio Penitenziario Israeliano ha dichiarato uno stato di emergenza. In strutture come Nafha, Ofer e Ktzi’ot, i detenuti dormono su materassi a terra in spazi inferiori ai 3 m² per persona, violando una sentenza della Corte Suprema israeliana del 2017.

Le condizioni igieniche favoriscono malattie cutanee e respiratorie, mentre i trasferimenti improvvisi in campi temporanei peggiorano ulteriormente la situazione.

Anche il cibo è diventato un mezzo di punizione. Dal 2023, le razioni si sono ridotte a tre cucchiai di riso o fagioli secchi al giorno, con pane e yogurt come colazione. La Corte Suprema israeliana, nel settembre 2025, ha riconosciuto che lo Stato viola il dovere legale di fornire tre pasti nutrienti quotidiani, ma le restrizioni imposte dal ministro Itamar Ben-Gvir restano in vigore, nonostante gli appelli dell’ONU.

Assistenza legale e isolamento

L’accesso alla difesa legale è gravemente limitato. Circa il 37% dei minori è detenuto senza accuse, e dal 2023 le visite degli avvocati sono sistematicamente ostacolate o annullate. Il Comitato Internazionale della Croce Rossa non ha più accesso regolare alle carceri. Organizzazioni come HaMoked e Addameer offrono assistenza pro bono, ma subiscono restrizioni, divieti e accuse di “terrorismo”. L’ONU definisce questo isolamento una forma di punizione disumana.

Figure simboliche della resistenza

Tra i prigionieri più noti rimasti dopo lo scambio del 13 ottobre spiccano:

  • Marwan Barghouti, leader di Fatah e figura chiave delle due Intifade, condannato nel 2004 a cinque ergastoli.
  • Ahmed Saadat, segretario generale del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), condannato nel 2008 a 30 anni per il suo coinvolgimento nell’assassinio del ministro israeliano Rehavam Zeevi.
  • Abdallah Al-Barghouti, militante di Hamas, condannato nel 2004 a 67 ergastoli.
  • Ibrahim Hamed, ex comandante di Hamas in Cisgiordania, con 54 ergastoli dal 2006.
  • Hassan Salama, di Gaza, con 48 ergastoli dal 1996.
  • Dr. Iyad Abu Safiya, medico e direttore dell’ospedale Al-Awda, detenuto senza accuse formali in via amministrativa.

Queste figure, viste da Israele come terroristi, restano per molti palestinesi simboli di resistenza e leadership. Il loro rilascio dipenderà da futuri scambi di prigionieri o decisioni politiche, non da percorsi giudiziari ordinari.

Reazioni e campagne internazionali

I processi contro i principali detenuti palestinesi – tra cui Marwan Barghouti, Ahmed Saadat, Abdallah Al-Barghouti, Ibrahim Hamed e Hassan Salama – sono stati contestati da organizzazioni per i diritti umani per gravi violazioni delle garanzie processuali. Amnesty International, B’Tselem e Human Rights Watch denunciano l’uso sistematico di confessioni estorte sotto coercizione, l’assenza di prove materiali dirette e il ricorso a “prove segrete” non accessibili alla difesa. Nelle corti militari israeliane, dove il tasso di condanna dei palestinesi supera il 99%, i giudici sono ufficiali dell’esercito e i processi avvengono spesso a porte chiuse, senza pieno diritto alla difesa. Secondo l’ONU, questo sistema viola gli standard internazionali di equità e la Quarta Convenzione di Ginevra, che tutela i detenuti nei territori occupati. Israele sostiene che le corti militari siano necessarie per motivi di sicurezza, ma le indagini su abusi restano eccezionali e raramente efficaci.

Diverse reti globali, come la Samidoun Palestinian Prisoner Solidarity Network, il Collettivo Palestine Vaincra e Defence for Children International – Palestine, promuovono campagne per la liberazione dei detenuti, in particolare di Marwan Barghouti e dei minori. Amnesty International ha definito migliaia di prigionieri palestinesi “moneta di scambio” e chiede il rilascio immediato di chi è detenuto arbitrariamente. Human Rights Watch e l’Associazione per i Diritti Civili in Israele hanno ottenuto vittorie legali parziali, come la sentenza contro le restrizioni alimentari, ma le violazioni continuano.

Gli ostaggi israeliani potevano essere liberati prima e salvati tutti

Il 13 ottobre 2025 Hamas ha liberato circa venti ostaggi israeliani, gli ultimi sopravvissuti tra oltre 250 catturati nell’attacco del 7 ottobre 2023. In cambio, Israele ha rilasciato quasi duemila prigionieri palestinesi, secondo l’accordo mediato dagli Stati Uniti con il coinvolgimento di Egitto, Qatar e Turchia. (Npr)

Gli ostaggi, trattenuti per 738 giorni nei tunnel di Gaza, sono stati consegnati alla Croce Rossa e poi alle forze israeliane. Hamas ha accettato lo scambio sotto la pressione della distruzione di Gaza City; Israele, sotto quella delle proteste interne e delle pressioni internazionali, soprattutto quelle americane.

L’intesa, firmata tra Israele e Hamas il 9 ottobre in Egitto, avvia una tregua che potrebbe chiudere due anni di devastazione. Ma apre una domanda: perché non è arrivata prima? Gli ostaggi israeliani potevano essere liberati molto prima — e potevano essere liberati tutti.

Ottobre 2023 – Israele rifiuta l’offerta di Hamas

Subito dopo l’attacco del 7 ottobre 2023, Hamas propone la liberazione immediata di tutti i civili catturati in cambio dell’impegno israeliano a non invadere Gaza.

L’offerta, trasmessa tra il 9 e il 10 ottobre tramite canali qatarioti, mirava a evitare l’offensiva terrestre. Il governo Netanyahu la respinse senza esitazioni, preferendo la distruzione di Hamas all’accordo. Il rifiuto, fu rivelato mesi dopo dall’ex portavoce del Forum delle Famiglie degli Ostaggi, Haim Rubinstein. (Times of Israel)

Novembre 2023 – La tregua di sette giorni

Tra il 24 novembre e il primo dicembre 2023, un accordo mediato da Qatar, Egitto e Stati Uniti consente a Hamas di liberare 105 ostaggi, in cambio di 240 prigionieri palestinesi. (ABC)

Quando emergono dispute sulla liberazione di due soldatesse, che Hamas sostiene di non riuscire a localizzare, Israele accusa Hamas di violare l’intesa e riprende i bombardamenti.

Maggio 2024 – Il piano Biden respinto

Il 31 maggio 2024 Joe Biden presenta un piano in tre fasi: rilascio graduale di tutti gli ostaggi, ritiro israeliano da Gaza e ricostruzione del territorio. Hamas accetta, Israele rifiuta.

Il ministro per la Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir, leader dell’estrema destra di Otzma Yehudit, minaccia di dimissioni e di far cadere la coalizione se l’intesa passa, vantandosi poi pubblicamente di averla sabotata. Insieme a Bezalel Smotrich, Ben-Gvir impone veti nel gabinetto di sicurezza, ignorando l’urgenza umanitaria e le pressioni familiari degli ostaggi. Secondo resoconti israeliani, questo stallo causa la morte di sei ostaggi, uccisi in tunnel bombardati durante le operazioni militari riprese a Rafah e Khan Younis. (JPost)

Netanyahu definisce l’accordo “inaccettabile” perché non prevede lo smantellamento completo di Hamas. Analisti come Charlie Herbert stimano che l’accordo avrebbe potuto liberare tutti i superstiti entro l’estate.

Ottobre 2024 – L’accordo Baskin ignorato

Un anno prima della liberazione finale, Hamas accetta integralmente un “Three Weeks Deal” proposto dal negoziatore israeliano Gershon Baskin: rilascio completo degli ostaggi in tre settimane, cessazione della guerra, cessione del controllo di Gaza a un governo civile tecnico. (Npr)

Netanyahu rifiuta, temendo di apparire debole e di perdere il sostegno della destra. L’amministrazione Biden, già distratta dalle elezioni, non interviene. L’occasione si perde, e la guerra prosegue a Rafah e Jabalia.

Gennaio–Marzo 2025 – La tregua interrotta

Tra il 19 gennaio e il 2 marzo 2025 una tregua di 42 giorni, mediata da Egitto, Qatar e Stati Uniti, porta alla liberazione di 33 ostaggi e di mille prigionieri palestinesi.

Alla fine della prima fase, Israele rifiuta di passare alla seconda, che avrebbe previsto la liberazione dei soldati e il ritiro totale delle truppe. Netanyahu esige la resa di Hamas, mentre l’amministrazione Trump appena insediata appoggia la linea dura. La guerra riprende con i bombardamenti su Gaza con un’intensità senza precedenti, proprio durante il primo giorno del Ramadan, un mese sacro per i musulmani, facendo subito un migliaio di vittime.

Aprile 2025 – La tregua di cinque anni respinta

Hamas propone una tregua di cinque anni, offrendo il rilascio di tutti i superstiti in cambio della fine delle ostilità e di garanzie per la ricostruzione di Gaza. (France24)

Israele respinge la proposta come “inaccettabile” perché non prevede la demilitarizzazione di Hamas. Netanyahu, pressato dall’estrema destra, sceglie l’offensiva “Carri di Gedeone” invece del negoziato.

Luglio 2025 – Il ritiro da Doha

Verso la fine di luglio, un accordo, mediato dal palestinese-americano Bishara Bahbah, sembra imminente. Hamas accetta una tregua di 60 giorni e lo scambio di tutti i superstiti per migliaia di prigionieri palestinesi. (Newsweek)

Ma Israele si ritira all’ultimo dalle trattative, preferendo rilanciare “Operation Gideon’s Chariots II”. Secondo i mediatori qatarioti, l’intesa avrebbe potuto chiudere la crisi ad agosto.

Agosto–Settembre 2025 – Il sabotaggio di Doha

Ad agosto, Hamas offre di liberare quindici ostaggi vivi in cambio di 800 prigionieri e una tregua di 45 giorni. Netanyahu rifiuta, pretendendo il rilascio di tutti, vivi e morti.

Pochi giorni dopo, il 9 settembre, un raid israeliano su un quartiere di Doha tenta di uccidere la delegazione negoziale di Hamas, ma fallisce, uccide comunque cinque persone tra cui il figlio del negoziatore Khalil al-Hayya. Il Qatar denuncia “terrorismo di Stato”. L’attacco fa saltare i colloqui. (Il Post)

Il modello che si ripete

Le otto occasioni mancate per liberare gli ostaggi israeliani tra il 2023 e il 2025 seguono un modello chiaro: Israele privilegia la guerra o tregue brevi per recuperare ostaggi senza cedere sul proseguimento della guerra fino al raggiungimento dei suoi obiettivi, mentre Hamas cerca accordi che conducano a una pace definitiva, con scambio di prigionieri, ripresa degli aiuti e ritiro israeliano da Gaza.

La responsabilità politica

La colpa primaria della condizione degli ostaggi resta di Hamas che li ha rapiti. Ma la responsabilità politica di non aver privilegiato la loro liberazione ricade sul governo israeliano.

Per due anni, il movimento delle famiglie degli ostaggi ha denunciato Netanyahu, accusandolo di anteporre la sopravvivenza della sua coalizione alle vite dei propri cittadini.

La destra di Ben-Gvir e Smotrich ha imposto veti che hanno bloccato ogni intesa possibile.

Così, mentre la guerra devastava Gaza e gli ostaggi morivano nei tunnel, la politica israeliana ha sacrificato i propri cittadini per un obiettivo irraggiungibile: la distruzione totale di Hamas. L’obiettivo ufficiale.

Il blocco navale israeliano di Gaza

Il blocco navale israeliano di Gaza

Da diciassette anni i due milioni di abitanti di Gaza vivono senza poter uscire dal loro territorio, senza poter commerciare liberamente e, da oltre due anni, senza nemmeno poter navigare. Il mare, che dovrebbe essere una via d’uscita, è diventato una barriera. Per Israele, il blocco navale serve a impedire il traffico di armi verso Hamas; per molti osservatori internazionali, è una forma di punizione collettiva che viola il diritto umanitario. La discussione non riguarda solo se il blocco sia legale, ma cosa significhi considerare “legale” una politica che affama un intero popolo.

Palmer, un verdetto controverso

La base giuridica del blocco risale al 2011, quando un gruppo d’inchiesta delle Nazioni Unite – la cosiddetta commissione Palmer, istituita dopo l’assalto israeliano alla flottiglia Mavi Marmara – concluse che il blocco navale imposto da Israele era “legittimo”.

Secondo il rapporto, Israele aveva il diritto di difendersi dal lancio di razzi provenienti da Gaza e, applicando il Manuale di San Remo sul diritto della guerra marittima, poteva limitare l’accesso al mare per motivi di sicurezza. Il panel considerava inoltre che Israele non occupasse più Gaza, poiché si era ritirato dal territorio nel 2005.

Ma quella definizione di “non occupazione” è sempre stata contestata. Israele continua a controllare lo spazio aereo, i confini terrestri e le acque territoriali della Striscia. L’Egitto collabora al blocco dal lato sud, ma il controllo effettivo rimane israeliano.

Per questo, già nel 2011, il Comitato internazionale della Croce Rossa e diverse agenzie dell’ONU avevano definito il blocco una punizione collettiva vietata dall’articolo 33 della Quarta Convenzione di Ginevra. L’ONU stimava allora che il 70% della popolazione dipendesse dagli aiuti alimentari. Oggi la percentuale sfiora il 100%.

La contraddizione di fondo è che una misura nata come difensiva è diventata un sistema di controllo totale. E la distanza tra legalità formale e legittimità morale si è allargata di anno in anno.

Dopo il 7 ottobre 2023

L’attacco di Hamas contro Israele del 7 ottobre 2023 ha riaperto una fase ancora più dura dell’assedio. Pochi giorni dopo, il ministro della Difesa Yoav Gallant annunciò: “Niente elettricità, niente cibo, niente carburante”. Da allora il blocco è diventato totale, non solo navale ma anche terrestre. Israele afferma di voler impedire il ritorno al potere di Hamas, ma il risultato è stato la distruzione quasi completa della Striscia di Gaza.

A metà 2025, secondo i dati delle agenzie ONU, oltre 90% della popolazione soffre di insicurezza alimentare estrema. Il Programma alimentare mondiale parla apertamente di carestia indotta. Le epidemie si diffondono per la mancanza di acqua potabile, i sistemi sanitari sono collassati, e le poche navi che cercano di portare aiuti umanitari vengono respinte o sequestrate in mare aperto.

Per Israele il blocco resta una misura militare legittima. Ma nel diritto internazionale umanitario il principio di proporzionalità vieta di colpire la popolazione civile per raggiungere obiettivi militari.

Nel marzo 2024, una relazione del Consiglio dei diritti umani dell’ONU ha definito il blocco “una forma di persecuzione sistematica” che “contribuisce a creare le condizioni di un possibile genocidio”.

Amnesty International e Human Rights Watch hanno espresso la stessa valutazione: la fame non è più una conseguenza della guerra, ma un suo strumento deliberato.

La pesca impedita

Fino al 2007, prima del blocco, la pesca era una delle principali fonti di reddito di Gaza. Oltre diecimila pescatori garantivano quasi quattromila tonnellate di pesce all’anno.

Con l’inizio del blocco israeliano, le zone di pesca sono state ridotte progressivamente da venti a tre miglia nautiche, poi vietate del tutto dopo il 2023.

Secondo il sindacato locale, nel 2025 più del 90% dei pescherecci è distrutto o inservibile, e almeno quindici pescatori sono stati uccisi dalla marina israeliana.

Chi prova a salpare rischia di essere colpito o arrestato. Anche le imbarcazioni che trasportano aiuti vengono intercettate prima di raggiungere le acque di Gaza.

Il mare, un tempo spazio di lavoro e libertà, è diventato il simbolo dell’assedio. È la frontiera che si può guardare ma non attraversare, la promessa di un altrove irraggiungibile.

Il blocco navale, formalmente difensivo, ha finito per trasformarsi in un meccanismo di isolamento totale: nessuno entra, nessuno esce, nemmeno per pescare.

Una zona grigia giuridica

Il caso di Gaza mostra quanto fragile possa essere la linea che separa la giustificazione della sicurezza dalla punizione collettiva. Il Rapporto Palmer, che nel 2011 sembrava stabilire un equilibrio tra diritto alla difesa e tutela dei civili, oggi appare come il punto d’origine di una zona grigia giuridica in cui tutto è consentito in nome della sicurezza.

Ma il diritto internazionale nasce proprio per limitare il potere degli Stati in guerra, non per giustificarlo.

Nel lessico legale, il blocco di Gaza continua a essere “discutibile ma non illegale”. Nella realtà, è diventato la negazione stessa del diritto alla vita.

Le navi che cercano di portare aiuti vengono fermate; i pescatori vengono uccisi; il mare resta vietato.

È la dimostrazione che la legalità, da sola, non basta a salvare lo spirito della legge, e che un popolo può essere affamato anche dentro le regole.

Dal diritto del mare alla guerra navale: perché le navi dirette a Gaza vengono fermate in acque internazionali

La posizione ufficiale israeliana sulla legalità dell’intercettazione di navi dirette a Gaza si fonda sulla distinzione tra il diritto del mare in tempo di pace e quello in tempo di guerra. Secondo Israele, la Global Sumud Flotilla – il convoglio umanitario intercettato a ottobre 2025 – rientra nella seconda categoria.

Israele richiama il Manuale di San Remo (1994), che regola la condotta dei conflitti armati in mare e consente il blocco navale di un territorio nemico, purché “efficace” e notificato alla comunità internazionale. In base a questo principio, sostiene che una nave diretta a Gaza possa essere fermata anche in acque internazionali se “intende violare” il blocco, in vigore dal 2009. È la logica con cui le unità della marina israeliana hanno abbordato la Flotilla a circa 70 miglia dalla costa, ben oltre le acque territoriali.

Le organizzazioni umanitarie e la maggior parte dei giuristi contestano questa interpretazione, appellandosi alla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS, Montego Bay 1982). La Convenzione tutela la libertà di navigazione in alto mare e ammette l’abbordaggio di navi straniere solo in casi specifici – come pirateria o tratta di esseri umani – non per “intenti presunti”. Per molti esperti, il blocco israeliano viola l’articolo 87 dell’UNCLOS e costituisce una forma di punizione collettiva, vietata dall’articolo 33 della IV Convenzione di Ginevra.

La cautela europea

Nel mezzo di questa disputa legale si inserisce la cautela europea. Le fregate Alpino (italiana) e Furor (spagnola) hanno scortato la flotilla solo fino a circa 150 miglia da Gaza, poi si sono fermate. Roma e Madrid hanno parlato di “monitoraggio umanitario”, ma hanno evitato di entrare nella zona di interdizione israeliana per non rischiare incidenti con un paese alleato. È il limite della politica europea: sostenere gli aiuti umanitari, senza mettere in discussione il blocco. Lo stesso ha fatto la Turchia.

Il risultato è un mare chiuso: Israele rivendica la legalità del blocco, ma a Gaza continua a essere negato il diritto più elementare, quello alla sopravvivenza.

Freedom la seconda Flotilla

Freedom la seconda Flotilla

La seconda Flotilla diretta a Gaza, organizzata dalla Freedom Flotilla Coalition (FFC), ha tentato in modo coordinato di sfidare il blocco navale israeliano, per portare aiuti umanitari e dare visibilità alla crisi alimentare e sanitaria nella Striscia. È partita con obiettivi chiari: consegnare cibo, medicinali e attrezzature mediche, e documentare la catastrofe umanitaria causata da due anni di guerra e assedio totale. Ma, come la precedente, le è stato impedito di arrivare a destinazione.

Il convoglio principale, composto da una decina di imbarcazioni e circa 70 attivisti, è salpato dal porto di San Giovanni Li Cuti, a Catania (Sicilia), il 27 settembre 2025, dopo un ritardo tecnico. In totale, la Freedom Flotilla comprendeva circa 150 volontari da 25 paesi, a bordo di nove navi tra cui la Conscience, dedicata a giornalisti e operatori sanitari. L’iniziativa si è però trovata a operare in un momento di particolare saturazione mediatica: si è sovrapposta alla Global Sumud Flotilla, lanciata a fine agosto dai porti di Spagna, Italia, Grecia e Tunisia con oltre 50 barche e la partecipazione di Greta Thunberg, e ha coinciso con l’annuncio del cosiddetto “piano di pace Trump”, che ha monopolizzato la scena diplomatica.

Il risultato è stato un’azione meno visibile, ma non meno significativa.

L’intercettazione in acque internazionali

L’IDF ha intercettato la seconda flottiglia l’8 ottobre 2025, a circa 120 miglia nautiche da Gaza, in acque internazionali. Le forze israeliane hanno disturbato le comunicazioni radio, poi hanno abbordato almeno due navi del convoglio, sequestrando l’intero equipaggio e i suoi beni. Tutti gli attivisti sono stati trasferiti forzatamente verso il porto israeliano di Ashdod. L’operazione è stata descritta dagli organizzatori come un “attacco violento” e una “violazione del diritto internazionale”, in continuità con quanto avvenuto pochi giorni prima contro la Sumud.

Le nove imbarcazioni risultano tuttora sequestrate. Gli aiuti umanitari – stimati in centinaia di migliaia di dollari, tra cibo, forniture mediche e attrezzature – sono stati confiscati. In base a precedenti simili, parte del carico potrebbe essere stata redistribuita tramite canali israeliani o agenzie ONU, ma senza consegna diretta a Gaza. Il resto, secondo la FFC, è probabilmente distrutto o trattenuto.

Abusi e detenzioni

Dopo l’intercettazione, i 145 volontari – tra cui medici, infermieri, giornalisti e parlamentari – sono stati arrestati, detenuti e interrogati in Israele. Tutti erano disarmati e impegnati in attività umanitarie.

Secondo le testimonianze raccolte da Adalah – The Legal Center for Arab Minority Rights in Israel e dalla Freedom Flotilla Coalition, gli attivisti hanno subito abusi fisici e psicologici sistematici durante l’abbordaggio e la detenzione, tra l’8 e il 12 ottobre 2025.

Durante l’intercettazione, molti sono stati colpiti, strattonati per i capelli o costretti a inginocchiarsi per ore sotto il sole, con le mani legate dietro la schiena. Diversi riferiscono di essere stati insultati o umiliati, costretti a ripetere frasi di fedeltà a Israele o denigrazione dei propri paesi d’origine.

Nei centri di detenzione di Ktzi’ot e Shikma, gli abusi sono proseguiti: condizioni disumane, accesso limitato ad acqua e cibo, assenza di assistenza legale per almeno 20 persone, e interrogatori con minacce di detenzione indefinita. Alcuni attivisti – tra cui Huwaida Arraf, palestinese-americana, Zohar Chamberlain Regev, israelo-tedesca, e Omer Sharir, israeliano – hanno reagito con uno sciopero della fame.

Particolarmente grave l’episodio che coinvolge la deputata europea Mélissa Camara, di origine africana, che ha subito insulti razzisti e violenze verbali. Nove cittadini francesi, tra cui Isaline Choury, 82 anni, sono stati costretti a firmare documenti falsi ammettendo un “ingresso illegale in Israele” per evitare la detenzione prolungata.

Entro il 12 ottobre, tutti i volontari sono stati liberati senza accuse formali e deportati, principalmente verso Giordania e Turchia. Nessuno risulta oggi in stato di fermo o in condizioni critiche, ma molti hanno descritto l’esperienza come traumatica. Le ONG coinvolte parlano di violazioni dei diritti umani e del diritto marittimo internazionale, e denunciano l’impunità sistemica concessa a Israele per atti simili.

Ondata dopo ondata

Nonostante l’intercettazione e gli abusi, la Freedom Flotilla Coalition ha annunciato che le missioni continueranno. Le definisce “wave upon wave”, ondata dopo ondata, per sottolineare una strategia di persistenza nonviolenta contro il blocco di Gaza.

Dal 2008 la FFC organizza missioni navali con volontari civili. Tra il 2023 e il 2025 ha già lanciato iniziative come Break the Siege, Handala e la Sumud Flotilla, tutte intercettate, ma decisive nel mantenere viva l’attenzione internazionale. Gli attivisti ripetono che “ogni missione fallita è un successo morale”, perché riaccende la consapevolezza dell’assedio e costringe l’opinione pubblica mondiale a guardare verso Gaza.

Gli organizzatori della Sumud, alleati con la FFC, hanno promesso di “continuare a navigare finché Gaza non sarà libera”. È una determinazione che non si ferma davanti ai sequestri, alle detenzioni o ai maltrattamenti, e che oggi – dopo due flottiglie intercettate in meno di dieci giorni – appare come la forma più visibile di disobbedienza civile internazionale contro l’assedio.

La pace di Trump per Gaza va bene ma non basta

La pace di Trump per Gaza adesso va bene ma non basta

Visto da destra, il “piano di pace Trump” per Gaza — che ha imposto a Israele e Hamas un cessate il fuoco duraturo, con la mediazione di Egitto e Qatar — è diventato un pretesto per attaccare la sinistra.

Secondo la narrazione governativa, la sinistra non sarebbe contenta che la pace a Gaza sia stata imposta proprio da Trump. Né sopporterebbe che il merito vada al presidente americano invece che alle manifestazioni, alla Flotilla, a Greta Thunberg o a Francesca Albanese. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha riassunto così il concetto: «La sinistra è più fondamentalista di Hamas».

Sorprende che un governo stabile e longevo senta il bisogno di polemizzare in modo così sguaiato con l’opposizione. Ma entriamo nel merito.

Al momento è stata concordata soltanto la prima fase del piano, quella che prevede la fine dei combattimenti, lo scambio di ostaggi e prigionieri e un ritiro parziale dell’esercito israeliano dalla Striscia. Le prossime fasi, che riguarderanno il futuro politico della Striscia di Gaza, il completamento del ritiro israeliano e la smilitarizzazione di Hamas, sono più complicate e potrebbero fallire più facilmente.

Ci dispiace che il cessate il fuoco lo stia imponendo Trump?

Non poteva essere diverso. Abbiamo sempre saputo che solo gli Stati Uniti hanno il potere di fermare Israele. Intervistato all’inizio della guerra di Gaza, l’ex ministro degli Esteri israeliano Shlomo Ben-Ami rispose alla domanda “Quando finirà?” con una frase lapidaria: «Dipende da quando si chiuderà la finestra che l’America ci concede».

In alcuni momenti era sembrato che Joe Biden quella finestra volesse chiuderla. Per esempio nel maggio 2024, quando l’IDF si apprestava a distruggere Rafah, ma Netanyahu diede comunque il via all’operazione. Biden era però in una condizione particolare, segnata da limiti di salute e di consenso. Con un nuovo presidente, che fosse Harris o Trump, era inevitabile che, questione di tempo, la finestra si richiudesse.

Eppure anche con Trump, inizialmente, si è ripetuto lo stesso schema: aveva realizzato un cessate il fuoco il giorno prima dell’insediamento, il 19 gennaio, ma Netanyahu lo ha rotto il 18 marzo; stava trattando con l’Iran a giugno, ma Netanyahu ha attaccato l’Iran; stava negoziando di nuovo una tregua con Hamas ad agosto, ma Netanyahu ha tentato di uccidere la delegazione di Hamas, senza riuscirci, colpendo perfino Doha, alleato strategico degli Stati Uniti. Quel fallimento ha segnato l’inizio della fine: lì si è chiusa davvero la finestra americana.

E finalmente.

Perché se il cessate il fuoco regge, finisce il calvario degli ostaggi e il grande strazio quotidiano delle vittime innocenti, dei feriti, degli affamati, dei lutti e delle distruzioni. Si interrompe il genocidio — o la marcia verso l’espulsione forzata dei palestinesi. Come si fa a non esserne contenti? E come non vedere che con la fine dei bombardamenti finisce anche il piccolo strazio morale di chi, in questi due anni, ha negato o giustificato l’orrore di Gaza?

Non deve stupire che il protagonista sia Trump. Non è la prima volta che negli Stati Uniti la pace arriva da leader conservatori o reazionari. Nixon e Kissinger avviarono il dialogo con la Cina di Mao, si ritirarono dal Vietnam e promossero la distensione con l’Urss. Reagan fu l’interlocutore della pace di Gorbaciov. In Israele, Sharon ritirò i coloni da Gaza — per congelare il processo di pace, ma i laburisti non fecero nemmeno quello.

Questi leader, proprio perché di destra, possono permettersi atti di pragmatismo senza temere accuse di debolezza o tradimento da parte dell’opposizione. Per lo stesso motivo, Trump può imporre a Gaza una pace sbilanciata a favore di Israele, ma non può farlo in Ucraina a favore della Russia: lì l’opposizione democratica e l’Europa lo accuserebbero di arrendersi a Putin. E già lo fanno.

Non per questo vanno svalutati altri fattori. Le grandi manifestazioni, la Flotilla, la popolarità di figure come Greta Thunberg o Francesca Albanese sono il termometro di un orientamento dell’opinione pubblica che cresce in intensità contro la guerra. E di questo, i governi europei e lo stesso presidente americano tengono conto.

Hamas ha fatto bene ad accettare il piano Trump: per urgenti ragioni umanitarie e per la responsabilità del 7 ottobre. E noi facciamo bene a essere felici di quel sì.

Ma noi non siamo Hamas. Non dobbiamo comportarci come una delle parti in causa. Siamo cittadini europei. Dobbiamo apprezzare la fine dei massacri, la liberazione degli ostaggi e, insieme, criticare le insufficienze e gli squilibri di un piano che, se non apre una prospettiva di giustizia, resterà soltanto una tregua — anche molto breve.

Negare la carestia a Gaza con le foto della festa

Alcuni commentatori filoisraeliani, come Marco Taradash, utilizzano le immagini dei palestinesi di Gaza che festeggiano il cessate il fuoco per negare la carestia nella Striscia. È un’operazione fuorviante, che ignora i criteri oggettivi e le valutazioni ufficiali della situazione.

La carestia non è definita dall’aspetto di singoli individui ridotti a scheletri, ma da criteri precisi e misurabili stabiliti dall’Integrated Food Security Phase Classification (IPC), il sistema internazionale di riferimento.

La Fase 5 (Catastrofe/Carestia) viene dichiarata quando sono soddisfatte simultaneamente tre soglie:

  • almeno il 20% della popolazione soffre un’estrema mancanza di cibo;
  • almeno il 30% dei bambini presenta malnutrizione acuta (sindrome da deperimento);
  • si registrano almeno due morti ogni 10.000 persone, o quattro ogni 10.000 bambini, al giorno, per fame o per la combinazione di fame e malattia.

Le agenzie umanitarie delle Nazioni Unite, come WFP e UNICEF, hanno ripetutamente messo in guardia sul rischio imminente di carestia in alcune aree di Gaza — in particolare nel nord — e hanno confermato livelli di insicurezza alimentare acuta (Fase 4 – Emergenza) e tassi di malnutrizione infantile oltre le soglie storiche. Le cause principali sono la limitazione all’accesso degli aiuti umanitari, del cibo, dell’acqua potabile e dei servizi sanitari. I report indicano decine di migliaia di bambini colpiti da malnutrizione acuta.

L’aspetto fisico di una persona, soprattutto se adulta o precedentemente in buona salute, non è un indicatore affidabile della condizione alimentare di un’intera popolazione.

La malnutrizione acuta colpisce più rapidamente e gravemente i bambini piccoli. La fame agisce in modo graduale: provoca prima carenze nutrizionali, poi debolezza immunitaria, e solo nel tempo e in condizioni estreme il deperimento visibile e la morte. La fame non si vede subito, ma uccide comunque.

La situazione alimentare è molto più grave nel nord della Striscia, dove l’accesso agli aiuti resta difficilissimo, e varia sensibilmente tra aree, famiglie e individui.

Dopo l’assalto e l’occupazione militare di Gaza City — che ha persino comportato la chiusura del “bar della Nutella”, diventato un simbolo dei negazionisti — l’attenzione mediatica sulla carestia è diminuita. Ma le valutazioni ufficiali delle organizzazioni internazionali non sono cambiate.

L’Integrated Food Security Phase Classification (IPC) ha confermato ufficialmente la condizione di carestia (Fase 5) in almeno un’area della Striscia di Gaza, il governatorato di Gaza. È la prima carestia mai dichiarata in Medio Oriente.

La classificazione, pubblicata nell’agosto 2025, certifica che le soglie critiche — estrema privazione alimentare, malnutrizione acuta elevata e mortalità legata alla fame — sono state raggiunte.

Oltre mezzo milione di persone, circa la metà bambini, vive oggi in condizioni di carestia conclamata (Fase 5). Più di 54.600 bambini sotto i cinque anni soffrono di malnutrizione acuta o severa, con un rischio elevatissimo di malattie e morte.

Le cause sono note e documentate: il blocco degli aiuti, la distruzione dei servizi essenziali, gli sfollamenti continui.

La restrizione (solo parzialmente attenuata) all’ingresso e alla distribuzione degli aiuti umanitari, il collasso del sistema sanitario e dei servizi idrici e igienici, insieme alla fame, aumentano il rischio di epidemie e aggravano ulteriormente la malnutrizione.

Le immagini dei festeggiamenti a Gaza — diffuse il 9 e 10 ottobre 2025 dopo l’annuncio del cessate il fuoco tra Israele e Hamas — sono reali: mostrano folle in festa a Nuseirat, Deir al-Balah e Gaza City, con bambini che corrono, fuochi d’artificio e bandiere palestinesi.

Ma rappresentano solo una parte della popolazione: gruppi urbani in aree accessibili, non i 2,3 milioni di abitanti (di cui 1,9 milioni sfollati). Chi festeggia può aver ricevuto aiuti recenti o conservato riserve; altrove, soprattutto nei campi profughi del nord, la fame continua.

Usare le immagini di un gruppo di persone per negare una crisi alimentare complessa e documentata da organizzazioni internazionali significa sostituire l’analisi con l’aneddoto, la realtà con l’apparenza.

Gli abusi sugli attivisti della Flotilla

Gli abusi sugli attivisti della Flotilla

Gli attivisti della Global Sumud Flotilla, un convoglio umanitario internazionale partito per rompere il blocco navale israeliano su Gaza e consegnare aiuti alla popolazione, sono stati intercettati dalle forze israeliane in acque internazionali, sequestrati e detenuti per diversi giorni in Israele prima di essere espulsi.

Le testimonianze degli abusi

Dopo il rilascio, diversi attivisti hanno denunciato trattamenti duri e umilianti da parte delle autorità israeliane: abusi fisici, privazioni e umiliazioni psicologiche.

L’attivista climatica svedese Greta Thunberg è stata rinchiusa in una cella infestata da cimici, con cibo e acqua insufficienti che hanno causato disidratazione e eruzioni cutanee sospette. È stata costretta a rimanere seduta a lungo su superfici dure, trascinata per i capelli e spinta a tenere e baciare una bandiera israeliana per scatti propagandistici.

Tra gli italiani, Cesare Tofani ha parlato di un trattamento “terribile”, con molestie da parte di esercito e polizia. Saverio Tommasi ha denunciato il rifiuto di medicine e un trattamento “come scimmie”, con scherni e umiliazioni. Paolo De Montis ha descritto ore in ginocchio su un furgone con mani legate dietro la schiena, schiaffi e minacce con cani e puntatori laser. Lorenzo D’Agostino ha segnalato furti di beni personali e denaro.

Le sorelle malesi Heliza e Hazwani Helmi hanno definito il trattamento “brutale e crudele”: tre giorni senza cibo, acqua bevuta dal water, malati ignorati.

Attivisti svizzeri e spagnoli hanno denunciato percosse, privazione del sonno, reclusione in gabbie e insulti, con giornalisti come Carlos de Barron e Nestor Prieto costretti a firmare dichiarazioni in ebraico senza traduzione né assistenza consolare. Anche attivisti australiani hanno parlato di “trattamenti degradanti”, con torsione delle braccia e offese razziste.

La risposta israeliana

Il Ministero degli Esteri israeliano ha definito le accuse “menzogne sfacciate”, sostenendo che i diritti dei detenuti siano stati pienamente rispettati e che nessuno abbia presentato reclami formali durante la detenzione.

Diversamente, il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir ha espresso orgoglio per il trattamento severo, definendo gli attivisti “sostenitori del terrorismo” che meritavano di essere trattati “come i prigionieri di Ketziot”.

La reazione dei sostenitori di Israele

Le reazioni pro-Israele sono state prevalentemente difensive e minimizzanti. Le testimonianze di abusi sono state derise o liquidate come propaganda, mentre l’attenzione è stata spostata sulla legittimità dell’intercettazione e sui presunti legami con Hamas.

In questa logica, i maltrattamenti sono percepiti come “normali” o “minimali”, una risposta proporzionata a chi “sapeva a cosa andava incontro”. È una doppia negazione: le accuse sarebbero false, ma anche vere e irrilevanti.

Una strategia che serve a preservare l’immagine di Israele, screditando le voci critiche e normalizzando l’abuso come componente della sicurezza.

Cosa dice il diritto internazionale

Il diritto internazionale non ammette deroghe simili, nemmeno in contesti di conflitto.

Le Convenzioni di Ginevra (IV, 1949) e i Protocolli aggiuntivi impongono il rispetto della dignità dei civili detenuti: accesso a cibo, acqua, cure e divieto assoluto di trattamenti degradanti.

La Convenzione contro la Tortura (1984) e il Patto sui Diritti Civili e Politici (1966) vietano anche privazioni “minime” se inflitte deliberatamente, come il cibo scarso o le celle insalubri.

L’intercettazione di navi umanitarie disarmate in acque internazionali può violare la libertà di navigazione (UNCLOS, 1982). E sebbene il Palmer Report del 2011 abbia ritenuto legale il blocco israeliano in astratto, l’uso della forza contro civili umanitari resta ingiustificato.

Organizzazioni come Amnesty International e FIDH hanno definito l’abbordaggio della Global Sumud Flotilla “illegale” e “intimidatorio”. Per l’ICRC, un’azione simile non è giustificabile dall’articolo 51 della Carta ONU se non esiste minaccia armata immediata.

Nel complesso, i trattamenti descritti configurano violazioni multiple del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani, anche se Israele le nega.

Il comportamento del governo italiano

Il governo Meloni ha mantenuto una posizione passiva e allineata con Israele, limitandosi all’assistenza consolare di base per i circa 20-30 cittadini italiani a bordo, tra cui quattro parlamentari.

Meloni ha pubblicamente definito gli attivisti “irresponsabili”. La marina italiana ha interrotto il tracciamento della Flotilla a 150 miglia da Gaza, ancora in acque internazionali. Il rimpatrio degli italiani è avvenuto grazie a un aereo turco, non su iniziativa del governo italiano, lasciando chi non poteva pagarsi il viaggio in una situazione di rischio prolungato.

È stata una gestione coerente con la linea di pieno allineamento a Israele, anche a costo di abbandonare cittadini italiani in condizioni di abuso.

La tutela dal basso

La protezione più tangibile è arrivata dalla società civile, l’equipaggio di terra.

Dalla sera di mercoledì 1° ottobre, subito dopo l’intercettazione, si sono accese proteste spontanee in molte città italiane, culminate nello sciopero generale del 3 ottobre e nella manifestazione nazionale a Roma del 4 ottobre, con oltre un milione di partecipanti.

Sindacati come CGIL, USB, CUB e SGB, insieme a movimenti pro-Palestina e opposizioni politiche, hanno costruito una rete di pressione che ha accelerato le liberazioni e amplificato il caso a livello internazionale.

Lo sciopero ha costretto il governo a reagire pubblicamente: Salvini ha denunciato la “guerra politica”, mentre Schlein e Conte hanno accusato Roma di complicità. Le conferenze stampa dei parlamentari liberati e la copertura dei media hanno trasformato la vicenda in un simbolo politico e morale, rilanciato da vignette e slogan come “I did it my wave”.

Non ha fermato l’intercettazione né avviato indagini ONU, ma ha riempito il vuoto lasciato dalle istituzioni, offrendo tutela attraverso visibilità, solidarietà e mobilitazione.

Tre dubbi retorici sulla Flotilla

Dubbi sulla Flotilla

L’Avvenire ha ospitato i “tre dubbi scomodi” di Davide Rondoni sulla Global Sumud Flotilla. Cioè, su chi – a suo dire – intenda usare il dolore altrui “per farsi bello e giusto a basso costo”. 1) Se davvero si vogliono portare aiuti umanitari, si usano canali sicuri, non un azzardo incerto. 2) Se invece si vuole provocare uno dei contendenti, si rischia di appoggiare l’altro (Hamas, Iran). 3) Vale allora la differenza tra la testimonianza umanitaria dei cristiani di Gaza, che restano accanto ai più fragili, e l’atto politico della Flotilla, che – rischiando di favorire le dittature – userebbe l’aspetto umanitario.

I tre dubbi, più che scomodi, sono retorici: tre affermazioni critiche e contrarie all’iniziativa della Flotilla.

Il primo dubbio ignora che la Global Sumud Flotilla ha tentato entrambe le strade: la consegna via mare, forzando un blocco illegale, e quella via terra, negoziando attraverso il ministero degli Esteri italiano un corridoio umanitario sicuro. Entrambi i tentativi sono falliti. Il primo perché l’IDF ha assaltato le navi ancora in acque internazionali; il secondo perché Israele ha voluto escludere dalla consegna gli alimenti più nutrienti ed energetici. Se i canali sicuri funzionassero, non ci sarebbe la carestia a Gaza. Quei canali esistono solo se chi detiene il potere li concede. Per Gaza non sono concessi: gli aiuti passano col contagocce e vengono usati come arma di guerra. Chiedere agli attivisti di usare “canali sicuri” significa, in pratica, chiedere loro di non agire affatto.

Il secondo dubbio rovescia la prospettiva della provocazione. Nel diritto, la provocazione è l’atto ingiusto che attenua la colpa di chi reagisce in stato d’ira. Ma tentare di forzare un blocco illegale per consegnare cibo e medicinali non è un atto ingiusto. Rovesciare i ruoli – chi rompe un blocco illegittimo sarebbe il provocatore, chi lo mantiene sarebbe provocato e legittimato a reagire – è lo schema con cui i regimi criminalizzano la disobbedienza civile. Valeva per i Freedom Riders negli Stati Uniti segregazionisti, vale per chi aiutava i migranti nei Balcani, vale per la Flotilla. Essere strumentalizzati è il rischio di ogni iniziativa politica. La lotta contro la guerra in Vietnam poteva favorire l’Unione Sovietica: era forse un buon motivo per rassegnarsi a quella guerra? Gli stessi dubbi di Rondoni possono risultare favorevoli a Israele o al governo Meloni, eppure lui li esprime lo stesso.

Il terzo dubbio è un falso dilemma. I cristiani di Gaza, che restano per assistere la popolazione e rifiutano l’esilio forzato, compiono certamente un atto umanitario che ha valore politico. Allo stesso modo, la Flotilla che disobbedisce a un blocco illegittimo compie un atto politico che ha valore umanitario. In un contesto di guerra e genocidio, il politico e l’umanitario si intrecciano. Chi si oppone a chi pretende di decidere della vita e della morte altrui, agisce insieme sul piano politico e su quello umanitario. Bene, dunque, i cristiani di Gaza; bene gli attivisti della Flotilla.

Questi ultimi, organizzando e conducendo una piccola flotta di barche a vela attraverso il Mediterraneo, si sono esposti fisicamente al rischio di essere uccisi, feriti, torturati, reclusi, e di perdere tutto il loro materiale. Oggi molti di loro sono prigionieri nelle carceri israeliane. Se si sono “fatti belli e giusti”, non è certo a basso costo.

A che pro? A rendere evidente l’arbitrio israeliano nelle acque internazionali e in quelle di Gaza. A mostrare come Israele eserciti il potere illegittimo di fermare con la violenza l’afflusso di aiuti di prima necessità. A obbligare le istituzioni e i governi europei a uscire dall’inerzia, a prendere posizione o ad assumersi la responsabilità della propria complicità. E infine, a mobilitare la società civile: in Italia, da mercoledì sera, le città sono attraversate da scioperi e manifestazioni.

La parte umanitaria del piano Trump

Piano Trump

Spero che Hamas accetti il piano Trump. Non perché lo consideri giusto o equilibrato, ma perché contiene una parte umanitaria che da sola basterebbe a giustificarne l’adesione: cessate il fuoco immediato, liberazione degli ostaggi entro 72 ore, scarcerazione di 1700 prigionieri palestinesi, ripresa degli aiuti dell’ONU, ricostruzione delle reti idriche ed elettriche, degli ospedali e delle attività commerciali distrutte.

Rilevante anche la rinuncia alla deportazione forzata: i civili palestinesi potrebbero lasciare la Striscia se lo volessero, ma non sarebbero obbligati. Occorrerebbe però specificare che a chiunque scelga di partire spetterebbe sempre il diritto al ritorno.

Il nodo più controverso riguarda il futuro governo di Gaza: una “commissione palestinese tecnocratica e apolitica” sotto la supervisione di un “Consiglio della Pace” guidato da Trump e delegato a Tony Blair. In sostanza, un protettorato anglo-americano. Restano inoltre indefiniti i tempi del ritiro israeliano e l’estensione della zona cuscinetto.

Il disarmo di Hamas potrebbe essere positivo per i civili, ma resta una misura imposta dall’esterno. E l’intera proposta ha la forma di un ultimatum: a Hamas sono concessi solo pochi giorni per accettare una resa quasi incondizionata, senza margini di negoziazione, sotto la minaccia di lasciare Israele libero di “finire il lavoro”.

Se mi mettessi nei panni di Hamas, accetterei lo stesso. Sarebbe una sconfitta formalizzata, ma non necessariamente la fine. Le ideologie non muoiono uccise dalle armi: se sopravvivono le cause che le hanno generate, possono trasformarsi e rinascere. Dopo il 1945 il nazifascismo fu schiacciato da una grande alleanza antifascista. Eppure minoranze nostalgiche si riorganizzarono, fecero ancora danni e oggi sono tornate al governo in Italia, si candidano in Germania, hanno un peso rilevante in molti paesi occidentali. Forse sono persino al governo negli Stati Uniti e in Russia. Perché Hamas non dovrebbe avere un futuro, magari in forme diverse, politiche o clandestine?

Nessuna vittoria militare basta, da sola, a risolvere un conflitto politico.

Droni e Meloni contro la Flotilla

Il 24 settembre 2025, undici imbarcazioni della Global Sumud Flotilla, incluse alcune battenti bandiera italiana, sono state attaccate in acque internazionali a sud di Creta. Si tratta del terzo attacco dall’inizio della missione umanitaria diretta a Gaza. Gli organizzatori hanno accusato Israele di aver utilizzato droni, sostanze chimiche non identificate e sistemi di disturbo delle comunicazioni radio.

Di fronte all’episodio, le reazioni sono state divergenti: l’Alto commissariato ONU per i diritti umani ha chiesto un’indagine indipendente, e il ministro della Difesa Guido Crosetto ha ordinato alla fregata italiana Fasan di prestare assistenza, seguito da misure simili della Spagna. Tuttavia, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha definito l’iniziativa della Flotilla “pericolosa e irresponsabile, finalizzata a creare problemi al governo”, e ha esortato gli attivisti a consegnare gli aiuti a Cipro per una distribuzione mediata dal patriarcato latino di Gerusalemme.

Il dilemma del governo italiano è evidente: da un lato, il dovere di proteggere i propri cittadini (tra cui anche parlamentari); dall’altro, la scelta strategica dell’allineamento con USA e Israele. La dichiarazione di Meloni tenta di risolvere questa tensione spostando la responsabilità sugli attivisti stessi: il messaggio implicito è che, mettendosi volontariamente in pericolo, le conseguenze siano principalmente una loro responsabilità.

Tuttavia, le parole ostili della presidente del consiglio non sono solo una presa di distanza. Esse aumentano il pericolo per la Flotilla. L’ attacco verbale di Meloni da New York, dopo l’ attacco armato dei droni in acque internazionali, delegittima l’azione umanitaria e legittima le azioni israeliane. Il segnale trasmesso è duplice: a Israele e USA assicura la continuità dell’allineamento; alla Flotilla, che non può contare sulla protezione dello Stato italiano.

La domanda retorica di Meloni – “Dobbiamo dichiarare guerra a Israele?” – è una strategia comunicativa che polarizza il dibattito tra due estremi. Questa reductio ad absurdum elimina tutte le sfumature della diplomazia (proteste formali, azioni legali, pressioni multilaterali) e nasconde la vera questione: come tutelare i cittadini attaccati da un alleato senza minare il rapporto strategico? Sostituendo una domanda difficile con una assurda, il governo evita di affrontare il problema nel merito.

Anche la mediazione italiana proposta (Cipro-Ashdod-Gaza) è rivelatrice. Il suo rigetto da parte della Flotilla è stato letto da Israele come una prova della “natura provocatoria” della missione. In realtà, la proposta ignora la radice del problema: la carestia forzata a Gaza è causata proprio dal blocco israeliano, già definito illegale da numerosi giuristi e condannato dal Consiglio ONU per i diritti umani dopo l’attacco alla Mavi Marmara del 2010, che questa mediazione avrebbe implicitamente riconosciuto come legittimo. Accettare significherebbe vanificare lo scopo politico della Flotilla: denunciare il blocco israeliano e l’immobilismo internazionale.