La Russia non si ferma a un distretto in più

Lo sconfinamento della Russia in Polonia: l'analisi di Andrew Spannaus

Il Messaggero ha ospitato un intervento di Andrew Spannaus, analista americano residente in Italia e vicino alle posizioni realiste. Il suo obiettivo è riportare il dibattito sulla Russia dentro coordinate più caute, dopo l’incidente dei droni russi sconfinati in Polonia e le reazioni europee. La tesi è semplice: Mosca non ha interesse a provocare un rafforzamento militare della Nato in Europa orientale, dunque va ridimensionata l’idea della volontà di un futuro attacco russo contro l’Europa.

Spannaus invita a mettere in discussione due assunti che, a suo avviso, drammatizzano l’analisi europea. Il primo riguarda la lettura automatica di ogni azione russa come prova di una strategia aggressiva contro la NATO, per saggiarne le difese o per volerla attaccare in un prossimo futuro. La Russia, sostiene, vuole l’Ucraina ma fatica a controllarne più del 20%: lotta per qualche distretto in più, non per un’escalation oltre i confini ucraini. Inoltre, chiede da anni l’arretramento delle truppe atlantiche dall’Europa orientale: a che scopo, allora, provocare il loro rafforzamento?

Il secondo assunto è quello della guerra ibrida permanente. Qui Spannaus richiama la “dottrina Gerasimov”, nata in realtà da un equivoco dell’analista britannico Mark Galeotti, che coniò l’espressione quasi per scherzo e poi la smentì. Nel suo articolo del 2013, il generale russo non teorizzava alcuna dottrina d’attacco, ma rifletteva su come difendersi dalle interferenze occidentali, comprese le “rivoluzioni colorate”.

La conclusione dell’analista è che gli incidenti di confine, come quello dei droni in Polonia, vadano gestiti con freddezza e razionalità: difendere con fermezza gli alleati NATO sì, ma senza alzare i toni né offrire pretesti per abbandonare la via diplomatica, che resta ancora percorribile. Un richiamo alla prudenza che rievoca le lezioni della Guerra fredda, quando la consapevolezza della “distruzione mutua assicurata” frenò più volte l’escalation.

Queste considerazioni hanno il loro valore. Spannaus ricorda che distinguere tra percezione e realtà è fondamentale per evitare automatismi bellici. E nello smontare la “dottrina Gerasimov” libera il dibattito da un mito persistente. La comparazione con la Guerra fredda, inoltre, sottolinea l’importanza della razionalità nella gestione della deterrenza.

Tuttavia, i limiti sono evidenti. L’analisi riduce la strategia russa a una somma di rivendicazioni territoriali e di resistenze all’allargamento NATO, senza considerare la dimensione ideologica ed espansionista del progetto neo-imperiale di Putin. Nei discorsi dal 2021 in poi, Mosca ha rivendicato la “Novorossija”, delegittimando l’esistenza stessa dell’Ucraina come Stato sovrano.

Anche sul piano della guerra ibrida, la sua lettura rischia di essere riduttiva. Che la “dottrina Gerasimov” sia un mito non significa che la Russia non pratichi tecniche ibride: disinformazione, cyberattacchi, sabotaggi, finanziamenti a partiti anti-UE, impiego di milizie mercenarie in Africa. Negare questa dimensione significa lasciare scoperto un campo dove Mosca ha investito risorse e capacità.

L’argomento secondo cui Putin non avrebbe interesse a provocare la NATO poggia su una logica razionale, ma presuppone che il Cremlino operi sempre secondo un immediato calcolo costi-benefici. L’invasione del 2022 in Ucraina puntando dritto su Kiev, come pure il sostegno ad Assad in Siria, dimostra invece che Putin è pronto a scelte rischiose e costose, persino autolesioniste, quando sono in gioco obiettivi politici o simbolici. La Russia non è sempre guidata dal pragmatismo, e questo va messo in conto.

C’è poi un altro aspetto che l’articolo non considera: la fragilità della NATO oggi. L’Alleanza non è più quella compatta del secolo scorso e neppure solo quella della precedente amministrazione Biden. L’appoggio americano all’Europa ormai non è scontato, e il 47° presidente degli Usa appare più incline a trattare Putin come un partner d’affari che come un nemico strategico. Parlare di deterrenza senza tener conto di questa variabile significa restare ancorati a uno schema passato.

Infine, la prospettiva di Spannaus è centrata interamente su Mosca: non discute come i Paesi confinanti percepiscano la minaccia russa come esistenziale e reclamino garanzie più forti dall’Alleanza. Un elemento cruciale, perché l’unità europea si gioca proprio sulla capacità di rispondere a quelle paure.

In sintesi, l’articolo di Spannaus è utile come antidoto all’allarmismo, ma rischia di sottovalutare la natura profonda e multidimensionale della minaccia russa, anche nelle sue stesse motivazioni difensive. Nelle politiche di potenza, spinte difensive ed espansioniste tendono a confondersi — basti pensare alle guerre israeliane in Medio Oriente. L’Europa ha sì bisogno di prudenza e di diplomazia, ma anche di una visione chiara della posta in gioco, che non si esaurisce in qualche distretto ucraino in più.

Resistere senza farsi distruggere

L’essere integralmente qualcosa non mi appartiene, perciò è probabile che non sia un pacifista integrale. Sono contro la violenza e l’uso della forza. Però, in certi casi e a certe condizioni l’ammetto. Quando ha dalla sua una ragione giusta e fondamentale; se è capace di colpire in modo mirato e proporzionato; qualora sia efficace e rapida rispetto a scopi definiti. Il solo aver ragione è insufficiente. Coinvolgere innocenti e inermi è inammissibile. Prolungare il conflitto è disastroso, specie nel perseguire obiettivi confusi o improbabili. Queste condizioni per me valgono, sia se attacchi, sia se ti difendi.

Se ti difendi, la tua ragione è più nobile. Infatti, ogni aggressore cerca di appropriarsene per rivendicare a modo suo il diritto alla difesa. Il pubblico più sano è predisposto a solidarizzare con chi si difende: l’Ucraina invasa dalla Russia, i palestinesi massacrati dagli israeliani. Ma la solidarietà può incoraggiare a resistere e in questo sbaglia, se non ha i mezzi per offrire un sostegno concreto, se non rischia qualcosa in proprio.

L’Ucraina ha i mezzi per resistere, anche grazie all’aiuto occidentale. Tuttavia, la sua resistenza rallenta solo l’avanzata russa, non riesce a invertire il corso della guerra, che intanto si trascina da tre anni, bruciando la vita di una generazione di ucraini e anche di russi. Ne vale davvero la pena?

I palestinesi invece sono senza mezzi, a parte l’arsenale di Hamas che può infliggere un colpo a Israele e fare una circoscritta strage indiscriminata e perciò criminale, ma poi tutta la Striscia di Gaza è massacrata, devastata, affamata per mesi e anni. Hamas sopravvive mentre tutto ciò che la circonda muore. Ne vale davvero la pena?

L’indipendenza, la sovranità, l’autodeterminazione sono ideali e principi giusti. C’entrano con le condizioni materiali di esistenza, che sono il vero bene da salvaguardare. Ci si sente vivi a incarnare quegli ideali. Appunto, dovrebbero servire per vivere. Ma se muori a cosa servono? A far vivere altri che poi muoiono come te? Forse vivrai, moriranno i tuoi genitori, tua moglie, i tuoi figli, i tuoi amici. Vivrai, forse su una sedia a rotelle, se ce n’è ancora una disponibile. Oppure, tenendoti su due stampelle, mentre le tue gambe finiscono sopra il ginocchio. Potrai guardare tutto quello che non puoi toccare, perché ti hanno amputato le braccia senza anestesia. O non vedrai più nulla, perché sarai diventato cieco. Magari, invece sarai tutto intero, prigioniero in condizioni disumane.

Nella dolorosa desolazione della morte e della distruzione, che valore potrà ancora avere il motivo per cui hai combattuto o hanno combattuto altri a tuo nome, esponendoti al disastro? Quel valore non ti sarà reso dai tanti che alzano la tua bandiera sulle tastiere. Per non dire di quegli altri, pronti ad attraversare lo schermo per affermare che sei una fiscia sacrificabile o una fake news. E ti mostreranno mentre mangi la Nutella in un caffè di lusso.

Se pure il tuo sacrificio ottiene l’attenzione del mondo, molta parte di questo mondo è distratto, distante, ideologico, paranoico. T’iscrive dentro un conflitto più grande, una guerra fredda o uno scontro di civiltà e diventi il fantasma di un mostro. La tua fine è necessaria per un bene superiore, per qualche valore supremo, sulle orme dei nostri antenati del 1945, evocati ormai anche per giustificare una rissa. Oppure, sulla tua fine il mondo ci fa i soldi, vendendo armi, ruspe, servizi digitali, progetti di ricostruzione. Una parte del mondo manifesterà per te o salperà sulla nave per venirti a salvare, come atto politico e simbolico (onore a loro, perché in effetti rischiano). L’esito finale, però, difficilmente cambierà.

A volte la difesa, la resistenza è autodistruttiva, offre solo il pretesto al tuo carnefice per massacrarti ancora di più. Allora, la rinuncia, la resa, la fuga sono scelte dignitose. Anche la dignità vuole la vita e non la morte. La vita in salute. Ogni genitore ha il dovere di vivere finché i suoi figli non sono adulti e autosufficienti. Tutti i figli hanno il dovere di vivere finché i loro genitori non sono deceduti. La madre, dopo nove mesi di gravidanza e un parto, ha il diritto assoluto di non vedere il proprio figlio neonato spappolato dalle bombe o schiacciato sotto le macerie. E se la vita non si può costruire qui, si può andare altrove. Anche se, è vero che, pure spostarsi nel mondo e trovare accoglienza è diventata una guerra.

Qualcuno obietterà con l’esempio più alto: la Resistenza al nazifascismo. E avrebbe ragione. Ma quella lotta rientrava proprio nei criteri che ho delineato: aveva una ragione giusta e fondamentale; i suoi atti, per quanto duri, miravano a colpire un occupante e un regime oppressivo, cercando di preservare gli inermi; fu, nel suo contesto, efficace e rapida nel conseguire l’obiettivo definito di liberazione, anche grazie a una solidarietà internazionale concreta e determinante. Fu, in sostanza, una forza proporzionata al fine.

Non smettere di parlare con la Russia

Non smettere di parlare con la Russia.

Smettere di parlare con la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina non mi è mai parsa una buona idea. Perché mettere fine alla guerra in atto e scongiurare una guerra più grande implica parlarsi e continuare a farlo anche quando sembra inutile.

Prendiamo Hamas. Un gruppo da noi considerato terrorista, fondamentalista, fanatico, intriso di odio e volontà distruttive e autodistruttive. Ebbene, questo gruppo è sempre in trattative con Israele. Nonostante Gaza sia sotto assedio, sotto occupazione, bombardata e affamata, distrutta in tutte le sue infrastrutture. Nonostante le uccisioni dei leader e dei negoziatori del gruppo, Hamas continua a trattare, anche quando la trattativa pare essere solo una copertura, anche dopo che Israele viola le tregue.

Se lo fa Hamas con Israele, perché non può farlo l’Ucraina con la Russia? E l’Europa e gli Usa insieme con l’Ucraina? Qui, mi riferisco agli Usa di Biden, perché gli Usa di Trump non so bene da che parte stiano.

Quando il tycoon fu rieletto alla Casa bianca – un evento catastrofico – almeno sotto questo aspetto mi parve buono. Gli Usa sarebbero tornati a parlare con la Russia. Così forse la guerra in Ucraina sarebbe finita. Invece, con Trump di nuovo presidente, la guerra in Ucraina è diventata soltanto più cruenta. Il punto è che Trump e Putin non sono due nemici che fanno la pace. Sembrano piuttosto due amici che fanno affari, spesso sulla pelle degli altri.

Quindi, il quadro è diventato ancora più sfavorevole. Ma penso lo stesso che l’Europa e l’Ucraina dovrebbero maturare una vocazione diplomatica e non limitarsi a predicare e praticare una resistenza che non si capisce quali esiti possa avere, se non una guerra continentale con la Russia.

Ciò detto, la pratica del dialogo deve tener conto dei principi giuridici. Perché una condizione della pace e della convivenza nel mondo è l’esistenza di un diritto internazionale. Che oggi sembra non valere più nulla. Perciò bisogna valorizzarlo.

La non adesione dell’Ucraina alla Nato è una cosa che si può concedere. L’acquisizione di territori con la forza invece no. Canali diplomatici formali ed informali si possono attivare e mantenere, anche con la mediazione di paesi terzi. Legittimare un leader ricercato internazionale dalla CPI per crimini di guerra, invece non lo si può fare. E non importa che non sia isolato nel resto del mondo, fuori dall’Europa.

Il resto del mondo non ci crede e non ci dà retta, perché non siamo coerenti. Anche questo va corretto, per una efficace diplomazia del vecchio continente. L’Europa dovrebbe avere lo stesso linguaggio e la stessa intraprendenza quando parla di Ucraina e quando parla di Gaza.

Gaza e Mariupol

Mariupol distrutta, marzo 2022
Mariupol distrutta, marzo 2022

Qualcuno, ad esempio Pierluigi Battista, ha mostrato le foto aeree di Mariupol distrutta nel 2022. Come a dire: voi che oggi denunciate la distruzione di Gaza, avete ignorato altre catastrofi simili. Fate due pesi e due misure.

Ma in questo modo, il giornalista finisce per paragonare – forse senza rendersene conto – i distruttori di Gaza ai distruttori di Mariupol. E se davvero volesse evitare il vizio del doppio standard, dovrebbe condannare entrambi. Invece no: è solidale con l’Ucraina, ma anche con Israele. Dunque, siamo di fronte al classico caso del bue che dà del cornuto all’asino.

È vero, alcuni osservatori adottano doppi standard. Ma non tutti. Per molti altri la differenza non sta nell’intensità della distruzione, ma nel contesto politico e morale. Nel caso dell’Ucraina, è chiaro chi è l’aggressore e chi è l’aggredito. Ed è proprio per questo che i nostri governi – italiani, europei, americani – sanzionano la Russia e sostengono l’Ucraina anche con le armi. Che altro dovremmo chiedere loro?

Al contrario, nel caso di Gaza assistiamo a una distruzione sistematica e a una crisi umanitaria deliberatamente provocata, ma i ruoli sono capovolti: l’aggressore, Israele, non solo non è sanzionato, ma viene attivamente sostenuto da USA e UE, con armi, denaro e copertura diplomatica. E i palestinesi – vittime di un’occupazione, di un assedio, di un massacro e ora anche della fame – vengono lasciati soli.

Per questo, se nel caso ucraino i governi fanno – almeno in parte – quel che devono, su Gaza sono assenti o complici. E allora tocca a noi: all’opinione pubblica, alla società civile, ai giornalisti liberi, svolgere un ruolo di supplenza politica e morale.