L’appello di Mattarella alla Flotilla

L'appello di Mattarella alla Flotilla

L’appello di Sergio Mattarella alla Flotilla si distingue dalle dichiarazioni di Giorgia Meloni per tono, registro e contenuti. Il presidente nomina la catastrofe umanitaria di Gaza e, così facendo, critica implicitamente Israele e riconosce il valore solidale dell’iniziativa. Si rivolge ai partecipanti con rispetto: «Mi permetto di rivolgermi con particolare intensità alle donne e agli uomini della Flotilla», scrive, chiedendo loro di accettare la mediazione del patriarcato di Gerusalemme per tutelare la propria incolumità e far giungere gli aiuti a Gaza in sicurezza. È un discorso elegante, persino opposto rispetto agli ordini e alle offese della presidente del Consiglio.

Ma resta un nodo irrisolto: come può lo Stato italiano proteggere i propri cittadini in acque internazionali e, allo stesso tempo, preservare il rapporto con un alleato che li attacca? Come può ribadire il diritto del mare e contestare un blocco illegale senza aprire un conflitto con Israele? Né le parole diplomatiche di Mattarella né quelle truculente di Meloni affrontano questo dilemma.

In modo raffinato, Mattarella sposta comunque sulla Flotilla la responsabilità di evitare lo scontro. Come ha riassunto Maria Elena Delia, portavoce della missione: «Non possiamo chiedere a Israele di non attaccarvi, chiediamo a voi di scansarvi». Il presidente avrebbe potuto premettere che Israele non può colpire cittadini italiani in acque internazionali e ricordare che il blocco di Gaza è illegale.

Nel discorso di Capodanno 2023, parlando dell’Ucraina, Mattarella disse: «La responsabilità ricade interamente su chi ha aggredito e non su chi si difende o su chi lo aiuta a difendersi». Esprimeva così il principio del rifiuto del precedente. Ora, per la libera navigazione e per la tutela del diritto umanitario, quel principio non merita di essere ribadito? Se i droni contro i nostri cittadini in mare fossero russi, lo accetteremmo?

Rivolgendosi solo alla vittima potenziale, il messaggio implicito diventa: “Voi siete l’unica parte su cui possiamo esercitare un’influenza per evitare il disastro. A voi chiediamo un passo indietro”. Il comportamento di Israele, invece, è trattato come un dato di natura: la sua “prevedibile reazione violenta” viene normalizzata e accettata come un confine invalicabile dell’azione politica.

Colpisce l’assenza di un richiamo al diritto internazionale, in particolare all’illegittimità degli attacchi in acque internazionali. È una mancanza grave dal punto di vista della tutela dei cittadini. Anche volendo evitare uno strappo con Israele e Stati Uniti, non può essere solo l’Italia a farsi carico della salvaguardia dell’alleanza: se siamo alleati e non subalterni, l’onere deve essere condiviso.

Il presidente offre alla Flotilla una corona d’alloro morale in cambio del suo ritiro dalla linea del fuoco: una via d’uscita onorevole, ma al prezzo di accettare che la legge del più forte prevalga sul diritto internazionale. Quanto alla mediazione, va ricordato che il patriarcato di Gerusalemme può impegnarsi a consegnare gli aiuti ma non garantirne l’ingresso, perché Israele blocca gran parte dei carichi ai valichi.

Al porto di Genova: dieci container con 300 tonnellate di cibo raccolto da Music for Peace restano bloccati da settimane. Perché? Israele e i suoi intermediari hanno chiesto che venissero tolti dai pacchi biscotti, miele, marmellate e altri alimenti ad alto valore energetico, imponendo anche ai volontari di pagare lo smaltimento e il trasporto aggiuntivo. Condizioni «irricevibili», come le ha definite la ong, che ha preferito bloccare la trattativa piuttosto che accettare di trasformarsi in complice di un meccanismo che affama Gaza.

Non è un episodio isolato: i divieti sui datteri perché considerati “cibo di lusso” o sulle patate perché “si conservano troppo a lungo” mostrano come Israele stia usando la fame in modo deliberato, burocratico, scientifico. E se l’Europa e l’Italia accettano queste regole, pur di far arrivare qualche briciola, finiscono per legittimare l’arma più crudele. In queste condizioni, la mediazione meglio intenzionata rischia di ridursi a un inganno per l’opinione pubblica.

Droni e Meloni contro la Flotilla

Il 24 settembre 2025, undici imbarcazioni della Global Sumud Flotilla, incluse alcune battenti bandiera italiana, sono state attaccate in acque internazionali a sud di Creta. Si tratta del terzo attacco dall’inizio della missione umanitaria diretta a Gaza. Gli organizzatori hanno accusato Israele di aver utilizzato droni, sostanze chimiche non identificate e sistemi di disturbo delle comunicazioni radio.

Di fronte all’episodio, le reazioni sono state divergenti: l’Alto commissariato ONU per i diritti umani ha chiesto un’indagine indipendente, e il ministro della Difesa Guido Crosetto ha ordinato alla fregata italiana Fasan di prestare assistenza, seguito da misure simili della Spagna. Tuttavia, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha definito l’iniziativa della Flotilla “pericolosa e irresponsabile, finalizzata a creare problemi al governo”, e ha esortato gli attivisti a consegnare gli aiuti a Cipro per una distribuzione mediata dal patriarcato latino di Gerusalemme.

Il dilemma del governo italiano è evidente: da un lato, il dovere di proteggere i propri cittadini (tra cui anche parlamentari); dall’altro, la scelta strategica dell’allineamento con USA e Israele. La dichiarazione di Meloni tenta di risolvere questa tensione spostando la responsabilità sugli attivisti stessi: il messaggio implicito è che, mettendosi volontariamente in pericolo, le conseguenze siano principalmente una loro responsabilità.

Tuttavia, le parole ostili della presidente del consiglio non sono solo una presa di distanza. Esse aumentano il pericolo per la Flotilla. L’ attacco verbale di Meloni da New York, dopo l’ attacco armato dei droni in acque internazionali, delegittima l’azione umanitaria e legittima le azioni israeliane. Il segnale trasmesso è duplice: a Israele e USA assicura la continuità dell’allineamento; alla Flotilla, che non può contare sulla protezione dello Stato italiano.

La domanda retorica di Meloni – “Dobbiamo dichiarare guerra a Israele?” – è una strategia comunicativa che polarizza il dibattito tra due estremi. Questa reductio ad absurdum elimina tutte le sfumature della diplomazia (proteste formali, azioni legali, pressioni multilaterali) e nasconde la vera questione: come tutelare i cittadini attaccati da un alleato senza minare il rapporto strategico? Sostituendo una domanda difficile con una assurda, il governo evita di affrontare il problema nel merito.

Anche la mediazione italiana proposta (Cipro-Ashdod-Gaza) è rivelatrice. Il suo rigetto da parte della Flotilla è stato letto da Israele come una prova della “natura provocatoria” della missione. In realtà, la proposta ignora la radice del problema: la carestia forzata a Gaza è causata proprio dal blocco israeliano, già definito illegale da numerosi giuristi e condannato dal Consiglio ONU per i diritti umani dopo l’attacco alla Mavi Marmara del 2010, che questa mediazione avrebbe implicitamente riconosciuto come legittimo. Accettare significherebbe vanificare lo scopo politico della Flotilla: denunciare il blocco israeliano e l’immobilismo internazionale.

Riconoscere lo Stato di Palestina

Il riconoscimento dello Stato di Palestina

Secondo la Convenzione di Montevideo del 1933, perché uno Stato sia riconosciuto deve avere tre requisiti: un popolo, un territorio, un governo. La Palestina li possiede: il popolo palestinese, i territori di Gaza e Cisgiordania, il governo legittimo dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP).

Quasi tutti i paesi del mondo, fuori dall’Occidente, hanno già riconosciuto la Palestina. Ora, per iniziativa della Francia, anche diversi paesi occidentali hanno compiuto questo passo: Portogallo, Regno Unito, Canada e Australia. Il Belgio si appresta a farlo.

Il governo israeliano è fermamente contrario, sostenendo che il riconoscimento della Palestina equivarrebbe a premiare il terrorismo di Hamas e che uno Stato palestinese costituirebbe una minaccia permanente alla sicurezza di Israele. Molti sostenitori di Israele aggiungono che un riconoscimento oggi sarebbe inutile, senza effetto pratico; semmai dovrebbe essere il coronamento di un processo di pace.

In Italia, incalzata dalle opposizioni, Giorgia Meloni propone una risoluzione parlamentare che subordina il riconoscimento della Palestina alla liberazione degli ostaggi e all’esclusione di Hamas dal futuro governo palestinese. Una posizione che sembra più un pretesto per rinviare il riconoscimento e, al tempo stesso, mostrarsi disponibile per non restare isolata mentre una parte dell’Europa e l’opinione pubblica si spostano verso la causa palestinese.

Questo spostamento diplomatico e popolare non nasce, è ovvio, dal desiderio di ricompensare il terrorismo, ma dalla necessità di arginare la distruzione della società palestinese. Il governo israeliano vuole imporre un fatto compiuto: svuotare o rendere invivibile la Striscia di Gaza, espandere i coloni in Cisgiordania, rendere impossibile la nascita di uno Stato palestinese. Gli Usa di Trump lasciano fare. La Francia di Macron, invece, promuove un’iniziativa diplomatica per contrastare questa strategia e salvare la prospettiva di uno Stato palestinese.

L’idea che la Palestina, una volta riconosciuta, sarebbe solo una base terroristica è essa stessa una visione terroristica. Non considera che il consenso al terrorismo nasce proprio dalla negazione dei diritti: il diritto all’autodeterminazione e, con esso, la possibilità di muoversi, avere una casa, lavorare, commerciare, costruire una comunità, non essere fermati, imprigionati, uccisi in modo arbitrario. Realizzata l’aspirazione nazionale palestinese, verrebbe meno anche il principale terreno su cui cresce il sostegno a organizzazioni che attaccano Israele.

Sanzioni europee a Israele, l’UE mette un piede nell’acqua fredda

Sanzioni europee a Israele, l'UE mette un piede nell'acqua fredda

Sulle sanzioni europee a Israele, il giudizio della maggioranza dell’opinione pubblica è severo e, in gran parte, fondato. Le sanzioni arrivano dopo quasi due anni di guerra, decine di migliaia di morti palestinesi, una società devastata. Bruxelles si è mossa solo dopo le proteste in mezza Europa e il rapporto ONU che ha parlato di genocidio. Infatti, il pacchetto proposto è fragile: colpisce solo il 37% delle esportazioni israeliane, lasciando fuori settori cruciali come high-tech e difesa. L’impatto stimato – 227 milioni di euro l’anno – è irrisorio rispetto ai miliardi di aiuti statunitensi. Non c’è embargo sulle armi, non ci sono misure su tecnologia e cybersecurity, mentre le sanzioni personali contro i ministri estremisti Ben Gvir e Smotrich sono più simboliche che reali. In più, le divisioni interne all’UE rischiano di bloccare tutto: basta il veto di Orbán a rendere impossibili le misure individuali, mentre senza Italia o Germania non si raggiunge la maggioranza per quelle commerciali.

La Spagna ha chiesto molto di più: sospensione dell’accordo di associazione con Israele, embargo totale sulle armi, sanzioni mirate ai leader israeliani responsabili delle violazioni. Una linea condivisa con Irlanda e Paesi Bassi, che rompe l’immobilismo europeo. La Commissione, invece, ha scelto la prudenza, temendo ritorsioni americane e proteggendo i propri interessi strategici. Resta il fatto che, a livello europeo, la posizione spagnola è minoritaria e incontra ostacoli enormi. Persino in patria il governo subisce critiche: le parole a Bruxelles non si sono ancora tradotte in atti concreti come lo stop unilaterale al commercio di armi.

Il giudizio severo sulla proposta di sanzioni UE, per quanto fondato, rischia però di essere totale, senza non cogliere un barlume di positività: l’importanza del gesto politico nonostante la mancanza di una efficacia immediata. Perché se è vero che queste sanzioni non fermeranno la guerra, è altrettanto vero che segnano una rottura con anni di paralisi europea. Qualcosa di buono nelle proposte UE si può fare lo sforzo di vedere. Per la prima volta, l’UE riconosce formalmente che Israele viola l’articolo 2 dell’accordo di associazione, che impone il rispetto dei diritti umani. È un precedente giuridico importante, che in futuro potrà essere invocato per misure più dure. C’è poi il valore simbolico: l’Europa, pur tra mille contraddizioni, rompe un tabù e mette in discussione le relazioni privilegiate con Israele. Questo alimenta il dibattito pubblico, costringe governi riluttanti come Germania e Italia a esporsi, e legittima la pressione della società civile. Si tratta insomma di un primo passo timido e inefficace, che difficilmente cambierà la linea di Netanyahu. Ma la sua importanza sta altrove: nel creare un precedente, nell’aprire una discussione, nel mostrare che anche l’UE non può più restare immobile.

L’ONU certifica il genocidio a Gaza

L’ONU certifica il genocidio a Gaza

La Commissione indipendente di inchiesta dell’ONU sui Territori palestinesi occupati ha concluso, dopo due anni di indagini, che a Gaza si stanno realizzando atti qualificabili come genocidio ai sensi della Convenzione del 1948. Nel rapporto, pubblicato il 16 settembre 2025, si riconosce che Israele ha commesso quattro delle cinque condotte tipiche del genocidio: uccidere membri del gruppo; causare gravi lesioni fisiche e mentali ai membri del gruppo; sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita calcolate per portarlo alla distruzione fisica, totale o parziale; imporre misure volte a prevenire le nascite all’interno del gruppo.

Elemento decisivo è l’intenzionalità genocidaria. La Commissione afferma che le autorità israeliane intendevano uccidere il maggior numero possibile di palestinesi, consapevoli che le strategie adottate – bombardamenti massicci in aree densamente abitate, blocco di cibo, acqua e medicinali, attacchi a ospedali, rifugi e convogli di evacuazione – avrebbero provocato morti di massa, inclusi bambini. Le vittime, si sottolinea, sono state colpite non come singoli individui ma in quanto palestinesi, cioè membri di un gruppo nazionale protetto dal diritto internazionale.

Il rapporto colloca la guerra di Gaza in un quadro storico più ampio: decenni di occupazione e colonizzazione, pratiche di apartheid e negazione del diritto all’autodeterminazione. L’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 è qualificato come crimine di guerra, ma la Commissione osserva che non costituiva una minaccia esistenziale per Israele e non può giustificare operazioni militari tese alla “vendetta e punizione collettiva”. Obiettivi dichiarati come la liberazione degli ostaggi e la neutralizzazione di Hamas, si legge, hanno mascherato lo scopo reale: la distruzione della comunità palestinese di Gaza.

Nelle raccomandazioni finali, la Commissione chiede a Israele di interrompere immediatamente le pratiche genocidarie e dichiarare un cessate il fuoco, e agli Stati terzi di adottare un embargo militare, collaborare con le corti internazionali e intervenire per fermare le violazioni. Il rapporto, che sarà presentato all’Assemblea generale a ottobre, rappresenta il primo riconoscimento formale da parte di un organo delle Nazioni Unite della responsabilità statale di Israele per genocidio a Gaza.

La Commissione è composta da tre esperti indipendenti di fama internazionale:

  • Navi Pillay, presidente della Commissione. Giurista, già Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (2008-2014) e giudice presso la Corte penale internazionale per il Ruanda (ICTR) e la Corte penale internazionale (CPI). Figura di massimo rilievo nel diritto internazionale e nei meccanismi di giustizia transnazionale;
  • Miloon Kothari, relatore speciale ONU sul diritto a un alloggio adeguato (2000-2008), architetto e pianificatore urbano, impegnato da decenni nei movimenti internazionali per i diritti economici, sociali e culturali;
  • Chris Sidoti, giurista e attivista per i diritti umani, già Commissario australiano per i diritti umani e membro di diverse indagini e missioni ONU, con lunga esperienza nelle organizzazioni non governative e nei sistemi di monitoraggio internazionale.

Gaza City, l’occupazione che aggrava la catastrofe

Gaza City, l’occupazione israeliana che aggrava la catastrofe

Dal 15-16 settembre l’IDF ha lanciato l’offensiva su Gaza City: in poche ore centinaia di civili sono morti e decine di migliaia si sono messi in fuga lungo la costa verso il sud. Organizzazioni internazionali parlano di una città già in stato di carestia e ora travolta da un esodo forzato, con corridoi umanitari intermittenti e punti di accesso agli aiuti chiusi o inaffidabili. (Reuters)

Le ragioni ufficiali israeliane — smantellare la struttura militare di Hamas, liberare gli ostaggi, ridurre i rischi ai civili — si scontrano con una dura realtà operativa: solo una parte della popolazione è riuscita a evacuare, molte aree restano densamente popolate e ogni avanzata richiede presidi che l’IDF fatica a garantire senza richiamare massicciamente riservisti. Il capo di stato maggiore Eyal Zamir aveva avvertito che l’occupazione su larga scala rischia di mettere in pericolo gli ostaggi e trascinare Israele in una lunga guerriglia urbana. (JPost)

Il risultato più probabile è dunque un paradosso: vittorie tattiche locali accompagnate da perdite umanitarie massicce e nessuna soluzione politica per il “dopo”. A ciò si aggiunge il rischio — denunciato da osservatori e giuristi — che l’obiettivo reale diventi lo svuotamento forzato della città e la riconcentrazione della popolazione nell’estremo sud di Gaza in “campi umanitari”, nella prospettiva dell’espulsione. Una prospettiva respinta dall’Egitto e condannata come illegale dagli organismi internazionali. (Ocha)

Quel che serve ora è chiaro: corridoi umanitari realmente garantiti, uno stop alle evacuazioni forzate e una forte pressione diplomatica internazionale per negoziare un immediato cessate il fuoco che protegga civili e liberi gli ostaggi. Senza una strategia politica credibile, ogni “battaglia definitiva” rischia di ripetersi, lasciando dietro di sé solo più morte e distruzione.

L’attacco israeliano in Qatar

Chi approva l’anomalo attacco israeliano in Qatar vede soltanto il bersaglio: i leader “terroristi” di Hamas.

Chi approva l’anomalo attacco israeliano in Qatar vede soltanto il bersaglio: i leader “terroristi” di Hamas.

Si stupisce che altri non apprezzino l’omicidio mirato come alternativa alla strage, dopo aver tante volte condannato le stragi. Tutto ciò che non riguarda l’eliminazione del nemico viene messo da parte.

I leader di Hamas a Doha sono figure politiche. È tutt’altro che certo che possano essere considerati legittimi obiettivi militari. Il diritto di guerra distingue civili e combattenti, e tutela i leader politici che non svolgono funzioni operative. Colpirli significa compiere esecuzioni extragiudiziarie.

Inoltre, l’attacco ha violato la sovranità del Qatar, estendendo il conflitto a un Paese esterno e lontano dal teatro di guerra. Farlo in un’area civile espone inevitabilmente i civili a rischi, in contrasto con il principio di proporzionalità.

Chi giustifica operazioni di questo tipo interpreta il diritto internazionale in modo spregiudicato, o lo considera una semplice formalità. Ma senza regole, resta solo la legge del più forte. Può sembrare accettabile a chi pensa di giocare la parte del leone, ma i rapporti di forza possono cambiare, oppure l’evoluzione delle armi può neutralizzarli: anche il più debole, se capace di colpire una sola volta, può rendere vana la superiorità dell’altro. La giungla, oggi o domani, è un luogo insicuro per chiunque.

Non è un’astrazione: proprio oggi la Polonia ha visto violato più volte il proprio spazio aereo dai droni russi. Ogni abuso tollerato da uno Stato potente incoraggia altri a fare lo stesso. La forza cieca produce distruzione apparentemente senza senso, come la furia di un uomo che in casa spacca tutto — ma solo le cose degli altri. È questa la logica del terrore: colpire a caso per imporre sottomissione.

Infine, l’attacco in Qatar ha avuto un’altra conseguenza: ha colpito i negoziatori, non soltanto i nemici. I leader di Hamas erano riuniti per valutare la proposta americana di cessate il fuoco, che prevedeva la liberazione di tutti gli ostaggi in un giorno. Eliminare chi era al tavolo ha significato colpire anche i negoziati, e con essi l’ultima possibilità di salvare gli ostaggi.

Per il governo israeliano e per chi lo sostiene, gli ostaggi non sono la priorità. Restano i più vulnerabili, insieme ai civili di Gaza. Ma nella giungla i vulnerabili soccombono: non solo per gli artigli dei leoni, ma anche per la loro indifferenza.

Tre inganni sul genocidio di Gaza

Tre sono gli argomenti ingannevoli dell’articolo di Ernesto Galli Della Loggia contro l’uso della parola “genocidio” per definire quanto Israele sta facendo a Gaza.

Il primo è fingere che “genocidio” sia solo una parola bandiera agitata da una nicchia movimentista e poi adottata da tutti in coro. Come se non esistesse una causa aperta alla Corte Internazionale di Giustizia, che ha ammesso la plausibilità del genocidio e ordinato a Israele di prevenirlo. Come se non ci fossero rapporti ONU e ONG, o un dibattito storico e giuridico documentato. Si può non condividere l’uso del termine, ma ignorarne la plausibilità e ridurre tutto a un riflesso emotivo o malevolo è una scelta che rivela debolezza, non rigore.

Il secondo è scivolare nel sarcasmo, dopo aver rifiutato di prendere sul serio le tesi avversarie. Allora Israele, “stato genocida”, sarebbe inefficiente rispetto alla Germania nazista perché ha ucciso solo 60 mila persone in due anni, invece di milioni. Ma il genocidio non si misura in quantità di morti: la differenza non sta nei mezzi ma nel contesto. La Germania agì dentro una guerra totale, senza diritto internazionale codificato, senza opinione pubblica libera, senza alleati democratici da cui dipendere. Israele invece è vincolato da tutti questi fattori, e se intende spingere verso la distruzione del popolo palestinese deve farlo in modo mitigato e graduale.

Il terzo è assumere la Shoah come unico modello genocida e farne un’asticella al di sotto della quale non può esserci genocidio. Ma la memoria della Shoah non serve a fissare un metro di misura, bensì a riconoscere e prevenire ogni progetto di deumanizzazione e distruzione. Altri genocidi di entità numericamente inferiore – dal Ruanda a Srebrenica (riconosciuto genocidio dalla Corte internazionale nel 2007) – non hanno banalizzato Auschwitz, ma hanno mostrato che il crimine può assumere forme diverse. Ogni genocidio è eccezionale. L’alternativa è considerare “normale” Gaza, come semplice sfondo alle notizie quotidiane.

L’uso del termine “genocidio” deve misurarsi con la definizione della Convenzione ONU del 1948: «atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso». È plausibile riconoscervi il caso palestinese: Israele percepisce i palestinesi come minaccia demografica, rifiuta sia i due Stati sia lo Stato unico binazionale, e ormai perfino lo status quo di apartheid, giudicato insostenibile dopo il 7 ottobre 2023. Restano la pulizia etnica e il genocidio. Forse non condivisi integralmente dai vertici israeliani, ma certo presenti come opzione politica e, da quel che vediamo, come pratica sul terreno.

L’uso di termini quali “strage”, “massacro”, “eccidio” proposti dall’autore in alternativa a “genocidio” sono spesso usati per descrivere azioni violente e concentrate nel tempo. Come l’attacco del 7 ottobre, che non a caso nominiamo con la data di un giorno. Questi termini non rendono invece conto di un’azione prolungata per anni in forme che tendono alla distruzione totale delle condizioni materiali di vita di un intero popolo.

Se si è in dubbio, non è obbligatorio assumere una posizione netta e definitiva adesso. Serve esprimersi e agire per fermare l’azione militare contro la popolazione di Gaza, altrimenti il genocidio, se non c’è, ci sarà. Il pericolo è riconosciuto anche da voci che negano la definizione: Liliana Segre e Benny Morris, intervistati per contraddire David Grossman, hanno ammesso che quando si arriva ad affamare e a uccidere in massa la popolazione, il rischio di genocidio c’è.

Non banalizzare il dibattito, dunque, ma riconoscere almeno la plausibilità del genocidio e l’imperativo di prevenirlo.

Il disimpegno israeliano dalla Striscia di Gaza

Il cosiddetto “disimpegno unilaterale” di Israele da Gaza del 2005 viene spesso presentato come un gesto di pace, vanificato dalla reazione palestinese. In realtà si trattò di una scelta strategica, mirata a rafforzare Israele sul piano interno e internazionale, non a rilanciare un processo negoziale.

Innanzitutto, i coloni israeliani nella Striscia erano circa 8.000, una cifra marginale rispetto alle centinaia di migliaia insediati in Cisgiordania. Il loro mantenimento comportava costi economici e militari sproporzionati. La rimozione rispondeva quindi a un’esigenza di alleggerimento, più che a una concessione.

In secondo luogo, l’evacuazione da Gaza consentiva di concentrare risorse e consenso politico sul consolidamento della Cisgiordania, considerata strategicamente molto più importante. Lo stesso Ariel Sharon dichiarò che il piano avrebbe permesso a Israele di “congelare” la situazione sul terreno.

La logica del congelamento venne esplicitata nell’ottobre 2004 dal consigliere senior di Sharon, Dov Weissglass, in un’intervista a Haaretz del 6 ottobre 2004:

«Il significato del piano di disimpegno è il congelamento del processo di pace, e quando si congela questo processo, si impedisce la creazione di uno Stato palestinese e si impedisce una discussione sui rifugiati, sui confini e su Gerusalemme. […] Di fatto, l’intero pacchetto chiamato Stato palestinese, con tutto ciò che comporta, è stato rimosso a tempo indeterminato dalla nostra agenda. E tutto questo con autorità e permesso, con la benedizione presidenziale e la ratifica di entrambe le Camere del Congresso».

Un terzo aspetto riguarda la politica palestinese: consegnare formalmente Gaza all’Autorità Nazionale Palestinese significava affidarle un compito ingestibile, tra un’economia asfissiata e l’ascesa di Hamas. La divisione tra Hamas e Fatah era prevedibile, e ha consentito a Israele di sostenere che non esiste un interlocutore palestinese unitario e credibile.

Infine, il ritiro non pose fine all’occupazione: Israele mantenne il controllo dello spazio aereo, delle acque territoriali, dei valichi, del registro della popolazione e delle importazioni. Le Nazioni Unite e la Banca Mondiale hanno continuato a considerare Gaza un territorio occupato.

Il disimpegno, dunque, non fu un’offerta mal ripagata dai palestinesi, ma un’operazione unilaterale volta a ridurre i costi, dividere i palestinesi e consolidare il controllo israeliano sulla Cisgiordania, congelando al tempo stesso la prospettiva di uno Stato palestinese.

La resistenza palestinese: a cosa si oppone

La resistenza palestinese si oppone all’occupazione israeliana dei Territori Palestinesi Occupati (la Striscia di Gaza e la Cisgiordania). Una prima e immediata obiezione dice che Gaza non è più territorio occupato, perché Sharon ha ritirato i coloni nel 2005. Tuttavia, Israele ha mantenuto e ulteriormente stretto il controllo sui confini, lo spazio aereo e lo spazio marittimo di Gaza. Motivo per cui, secondo il diritto internazionale, Israele mantiene lo status di stato occupante anche nei confronti di Gaza. Inoltre, dall’ottobre 2023, tutta la Striscia di Gaza è sottoposta a una estrema punizione collettiva. Un massacro su larga scala, la distruzione della gran parte delle infrastrutture civili e dell’agricoltura, il blocco degli aiuti.

Un’obiezione più generale ricorda che la resistenza palestinese è precedente l’occupazione israeliana dei Territori. Inizia dalla costituzione dello stesso Stato d’Israele nel 1948, mentre Gaza era sotto l’Egitto e la Cisgiordania sotto la Giordania. Quindi è lecito pensare che i palestinesi resistono, non solo all’occupazione, ma all’esistenza stessa di Israele. Infatti, non hanno mai cercato di liberarsi dall’Egitto e dalla Giordania. D’altra parte, Hamas, l’organizzazione islamista che dagli anni ‘90 più di altri gruppi si distingue per la resistenza armata, non riconosce lo Stato d’Israele. Anzi ne propugna la fine nel suo statuto fondativo del 1988.

È vero che la resistenza palestinese precede la Guerra dei sei giorni (1967). I primi gruppi armati palestinesi si sono formati negli anni ‘50, per praticare attacchi contro Israele a partire soprattutto dalla Striscia di Gaza. Perché i combattenti palestinesi degli anni ‘50 lottavano contro Israele e non contro l’Egitto e la Giordania? Perché nel 1948 lo Stato di Israele aveva occupato il 78% della Palestina mandataria, espulso circa 700.000 palestinesi e distrutto centinaia di villaggi. Per i palestinesi degli anni ‘50, Israele stessa era l’occupazione e l’espropriazione delle terre palestinesi. La priorità della lotta era il Ritorno. Egitto e Giordania esercitavano una giurisdizione, anche con elementi duri, autoritari e repressivi. Però, non colonizzavano la terra dei palestinesi, non gli demolivano le case, non gli distruggevano gli uliveti, non gli chiudevano le strade, non li fermavano ai check-point, non li arrestavano e non li uccidevano quotidianamente.

Esaurite le generazioni palestinesi vittime della Nakba, la resistenza palestinese viene poi rilanciata e alimentata dall’occupazione israeliana del 1967, che perdura ancora oggi. Un’occupazione fatta di legge militare e colonizzazione. Contro la quale l’insurrezione vera e propria dei palestinesi inizia nel 1987 con la prima intifada. Ciò nonostante, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), nel 1988, riconosce tutte le risoluzioni dell’ONU, quindi anche quella del 1947, che raccomanda la ripartizione della Palestina in uno stato ebraico e in uno stato arabo. E nel 1993, l’OLP sigla gli accordi di Oslo per il riconoscimento reciproco tra Israele e Palestina e per il ritiro graduale di Israele dai Territori Occupati. Accordo disapprovato e sabotato da Hamas e dalla destra israeliana, che arriva a uccidere il primo ministro Rabin.

Quando gli Accordi di Oslo sono ormai naufragati — dopo il fallimento di Camp David (2000) e Taba (2001), il ritorno al governo del Likud con Ariel Sharon (2001) — nel giugno 2003 e nel gennaio 2004 Hamas propone la Hudna: dieci anni di tregua a Israele in cambio di un ritiro completo da tutti i territori occupati, conquistati nella Guerra dei Sei Giorni, e la creazione di uno Stato palestinese in Cisgiordania ed a Gaza. Il leader di Hamas fautore della proposta era Abd al-Aziz al-Rantissi, ucciso dall’IDF il 17 aprile 2004, in un omicidio extragiudiziario.

La Hudna viene poi recepita senza limiti temporali specificati nel nuovo Statuto di Hamas del 2017, là dove dice che «Hamas considera la creazione di uno Stato palestinese pienamente sovrano e indipendente, con Gerusalemme come capitale sulla falsariga del 4 giugno 1967, con il ritorno dei rifugiati e degli sfollati alle loro case da cui sono stati espulsi, come una formula di consenso nazionale». Il 4 giugno 1967 è il giorno precedente la Guerra dei sei giorni. Israele e molti osservatori giudicano il nuovo documento insufficiente, quindi ingannevole, per il mancato riconoscimento esplicito dello Stato d’Israele. Ma con ciò disconoscono la svolta pragmatica e la potenzialità di una evoluzione.

Dopo il nuovo Statuto del 2017, Hamas con gli altri gruppi palestinesi, nel 2018-2019, organizza la “Grande marcia del ritorno”, una manifestazione pacifica settimanale, per ricordare la Nakba e riconquistare l’attenzione internazionale sulla questione palestinese. Israele reagisce con la repressione: 200 palestinesi uccisi, 8.000 feriti.

Oggi, i palestinesi cosa vogliono? Liberare i territori occupati o tutta la Palestina dal fiume al mare? Credo vogliano innanzitutto sopravvivere, restare nel luogo in cui abitano e riguadagnare un minimo di normalità. È molto difficile che i palestinesi possano distinguere tra le due prospettive, nel momento in cui non vedono nessuna prospettiva. Perché i palestinesi della Cisgiordania devono fronteggiare gli attacchi continui dei coloni e i palestinesi di Gaza devono fronteggiare le bombe, una carestia forzata e, forse, un genocidio, come documenta la recente risoluzione dell’International Association of Genocide Scholars (IAGS).

Considerando la grande sproporzione dei rapporti di forza, è molto difficile che possa essere la volontà del più debole a sbloccare la situazione e rilanciare un processo di pace. Il punto è cosa vuole Israele. La destra al governo vuole i Territori senza i palestinesi.

Che il comportamento di una popolazione sia determinato dalle condizioni materiali di vita e dal riconoscimento dei diritti fondamentali, più che dalla religione, l’ideologia o la propaganda, è dimostrato dalla minoranza arabo-israeliana, ovvero i palestinesi con la cittadinanza israeliana. Essi non hanno mai praticato alcuna forma di resistenza armata, hanno sempre lottato per i propri diritti con mezzi legali e pacifici. È questa la prova empirica: dove si riconoscono diritti e dignità, si riduce la resistenza violenta; dove si negano, l’oppressione alimenta la reazione.