L’appello di Mattarella alla Flotilla

L'appello di Mattarella alla Flotilla

L’appello di Sergio Mattarella alla Flotilla si distingue dalle dichiarazioni di Giorgia Meloni per tono, registro e contenuti. Il presidente nomina la catastrofe umanitaria di Gaza e, così facendo, critica implicitamente Israele e riconosce il valore solidale dell’iniziativa. Si rivolge ai partecipanti con rispetto: «Mi permetto di rivolgermi con particolare intensità alle donne e agli uomini della Flotilla», scrive, chiedendo loro di accettare la mediazione del patriarcato di Gerusalemme per tutelare la propria incolumità e far giungere gli aiuti a Gaza in sicurezza. È un discorso elegante, persino opposto rispetto agli ordini e alle offese della presidente del Consiglio.

Ma resta un nodo irrisolto: come può lo Stato italiano proteggere i propri cittadini in acque internazionali e, allo stesso tempo, preservare il rapporto con un alleato che li attacca? Come può ribadire il diritto del mare e contestare un blocco illegale senza aprire un conflitto con Israele? Né le parole diplomatiche di Mattarella né quelle truculente di Meloni affrontano questo dilemma.

In modo raffinato, Mattarella sposta comunque sulla Flotilla la responsabilità di evitare lo scontro. Come ha riassunto Maria Elena Delia, portavoce della missione: «Non possiamo chiedere a Israele di non attaccarvi, chiediamo a voi di scansarvi». Il presidente avrebbe potuto premettere che Israele non può colpire cittadini italiani in acque internazionali e ricordare che il blocco di Gaza è illegale.

Nel discorso di Capodanno 2023, parlando dell’Ucraina, Mattarella disse: «La responsabilità ricade interamente su chi ha aggredito e non su chi si difende o su chi lo aiuta a difendersi». Esprimeva così il principio del rifiuto del precedente. Ora, per la libera navigazione e per la tutela del diritto umanitario, quel principio non merita di essere ribadito? Se i droni contro i nostri cittadini in mare fossero russi, lo accetteremmo?

Rivolgendosi solo alla vittima potenziale, il messaggio implicito diventa: “Voi siete l’unica parte su cui possiamo esercitare un’influenza per evitare il disastro. A voi chiediamo un passo indietro”. Il comportamento di Israele, invece, è trattato come un dato di natura: la sua “prevedibile reazione violenta” viene normalizzata e accettata come un confine invalicabile dell’azione politica.

Colpisce l’assenza di un richiamo al diritto internazionale, in particolare all’illegittimità degli attacchi in acque internazionali. È una mancanza grave dal punto di vista della tutela dei cittadini. Anche volendo evitare uno strappo con Israele e Stati Uniti, non può essere solo l’Italia a farsi carico della salvaguardia dell’alleanza: se siamo alleati e non subalterni, l’onere deve essere condiviso.

Il presidente offre alla Flotilla una corona d’alloro morale in cambio del suo ritiro dalla linea del fuoco: una via d’uscita onorevole, ma al prezzo di accettare che la legge del più forte prevalga sul diritto internazionale. Quanto alla mediazione, va ricordato che il patriarcato di Gerusalemme può impegnarsi a consegnare gli aiuti ma non garantirne l’ingresso, perché Israele blocca gran parte dei carichi ai valichi.

Al porto di Genova: dieci container con 300 tonnellate di cibo raccolto da Music for Peace restano bloccati da settimane. Perché? Israele e i suoi intermediari hanno chiesto che venissero tolti dai pacchi biscotti, miele, marmellate e altri alimenti ad alto valore energetico, imponendo anche ai volontari di pagare lo smaltimento e il trasporto aggiuntivo. Condizioni «irricevibili», come le ha definite la ong, che ha preferito bloccare la trattativa piuttosto che accettare di trasformarsi in complice di un meccanismo che affama Gaza.

Non è un episodio isolato: i divieti sui datteri perché considerati “cibo di lusso” o sulle patate perché “si conservano troppo a lungo” mostrano come Israele stia usando la fame in modo deliberato, burocratico, scientifico. E se l’Europa e l’Italia accettano queste regole, pur di far arrivare qualche briciola, finiscono per legittimare l’arma più crudele. In queste condizioni, la mediazione meglio intenzionata rischia di ridursi a un inganno per l’opinione pubblica.

Droni e Meloni contro la Flotilla

Il 24 settembre 2025, undici imbarcazioni della Global Sumud Flotilla, incluse alcune battenti bandiera italiana, sono state attaccate in acque internazionali a sud di Creta. Si tratta del terzo attacco dall’inizio della missione umanitaria diretta a Gaza. Gli organizzatori hanno accusato Israele di aver utilizzato droni, sostanze chimiche non identificate e sistemi di disturbo delle comunicazioni radio.

Di fronte all’episodio, le reazioni sono state divergenti: l’Alto commissariato ONU per i diritti umani ha chiesto un’indagine indipendente, e il ministro della Difesa Guido Crosetto ha ordinato alla fregata italiana Fasan di prestare assistenza, seguito da misure simili della Spagna. Tuttavia, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha definito l’iniziativa della Flotilla “pericolosa e irresponsabile, finalizzata a creare problemi al governo”, e ha esortato gli attivisti a consegnare gli aiuti a Cipro per una distribuzione mediata dal patriarcato latino di Gerusalemme.

Il dilemma del governo italiano è evidente: da un lato, il dovere di proteggere i propri cittadini (tra cui anche parlamentari); dall’altro, la scelta strategica dell’allineamento con USA e Israele. La dichiarazione di Meloni tenta di risolvere questa tensione spostando la responsabilità sugli attivisti stessi: il messaggio implicito è che, mettendosi volontariamente in pericolo, le conseguenze siano principalmente una loro responsabilità.

Tuttavia, le parole ostili della presidente del consiglio non sono solo una presa di distanza. Esse aumentano il pericolo per la Flotilla. L’ attacco verbale di Meloni da New York, dopo l’ attacco armato dei droni in acque internazionali, delegittima l’azione umanitaria e legittima le azioni israeliane. Il segnale trasmesso è duplice: a Israele e USA assicura la continuità dell’allineamento; alla Flotilla, che non può contare sulla protezione dello Stato italiano.

La domanda retorica di Meloni – “Dobbiamo dichiarare guerra a Israele?” – è una strategia comunicativa che polarizza il dibattito tra due estremi. Questa reductio ad absurdum elimina tutte le sfumature della diplomazia (proteste formali, azioni legali, pressioni multilaterali) e nasconde la vera questione: come tutelare i cittadini attaccati da un alleato senza minare il rapporto strategico? Sostituendo una domanda difficile con una assurda, il governo evita di affrontare il problema nel merito.

Anche la mediazione italiana proposta (Cipro-Ashdod-Gaza) è rivelatrice. Il suo rigetto da parte della Flotilla è stato letto da Israele come una prova della “natura provocatoria” della missione. In realtà, la proposta ignora la radice del problema: la carestia forzata a Gaza è causata proprio dal blocco israeliano, già definito illegale da numerosi giuristi e condannato dal Consiglio ONU per i diritti umani dopo l’attacco alla Mavi Marmara del 2010, che questa mediazione avrebbe implicitamente riconosciuto come legittimo. Accettare significherebbe vanificare lo scopo politico della Flotilla: denunciare il blocco israeliano e l’immobilismo internazionale.

Lo sciopero generale delle Usb per Gaza. Il framing della violenza

Lo sciopero generale Usb per Gaza. Roma stazione Termini bloccata.

Oltre mezzo milione di persone in più di 70 città italiane hanno partecipato allo sciopero generale indetto dai sindacati di base in solidarietà con la popolazione palestinese. La mobilitazione ha coinvolto molti settori: dai trasporti alle scuole, dai porti ai servizi. A Genova i lavoratori portuali hanno bloccato il traffico di armi diretto a Israele, impedendo a una nave sospetta di attraccare per tutta la giornata. A Roma decine di migliaia di persone hanno sfilato da Termini fino alla tangenziale, a Bologna i cortei hanno invaso autostrada e raccordo, mentre a Torino e Napoli i manifestanti hanno occupato i binari delle stazioni centrali.

Il caso più discusso è stato però quello di Milano, dove un gruppo di manifestanti ha tentato di entrare nella stazione Centrale ed è stato respinto dalla polizia. Ne sono seguiti scontri e contusi. Episodi minoritari, ma molto visibili, che hanno finito per catalizzare l’attenzione mediatica e politica.

La premier Giorgia Meloni e il centrodestra hanno condannato con durezza le violenze, parlando di “atti di teppismo” che non aiutano la causa palestinese. Le opposizioni hanno replicato chiedendo di distinguere tra la stragrande maggioranza pacifica e la piccola frangia violenta. Elly Schlein e Giuseppe Conte hanno accusato Meloni di sottrarsi al confronto parlamentare sulla linea del governo rispetto a Gaza.

La dinamica non è nuova. Ogni volta che un movimento di massa scende in piazza, si ripete un copione collaudato. C’è una mobilitazione ampia, trasversale e pacifica, che rappresenta una protesta legittima. Una piccola parte compie gesti violenti o dimostrativi, a volte provocata, a volte provocatoria. I poteri politici e mediatici ostili spostano subito il focus su questi episodi, fino a farne l’immagine dominante della protesta. La minoranza violenta diventa così il volto dell’intero movimento, mentre chi non prende le distanze in modo netto viene accusato di complicità. Intanto, le questioni sostanziali – in questo caso il traffico di armi e la posizione italiana sulla guerra a Gaza – scivolano sullo sfondo.

I media studies chiamano questo meccanismo “framing della violenza”: trasformare lo scontro con la polizia in titolo e foto di apertura, riducendo una mobilitazione di mezzo milione di persone a poche decine di incidenti. È anche una “strategia della marginalizzazione”: legittimare la repressione, spaventare l’opinione pubblica moderata, delegittimare le istanze del movimento senza affrontarle.

Il meccanismo funziona perché semplifica: ordine contro caos, forze dell’ordine contro “teppisti”. Così il governo evita di rispondere su questioni scomode come il transito di armi dal porto di Genova o la linea diplomatica italiana verso Israele.

Per questo la reazione delle opposizioni diventa decisiva: distinguere tra la maggioranza pacifica e le frange violente significa riportare il dibattito al cuore politico della protesta. È la posta in gioco: ridurre tutto a un problema di ordine pubblico o discutere finalmente di Gaza e del ruolo dell’Italia.

Sanzioni europee a Israele, l’UE mette un piede nell’acqua fredda

Sanzioni europee a Israele, l'UE mette un piede nell'acqua fredda

Sulle sanzioni europee a Israele, il giudizio della maggioranza dell’opinione pubblica è severo e, in gran parte, fondato. Le sanzioni arrivano dopo quasi due anni di guerra, decine di migliaia di morti palestinesi, una società devastata. Bruxelles si è mossa solo dopo le proteste in mezza Europa e il rapporto ONU che ha parlato di genocidio. Infatti, il pacchetto proposto è fragile: colpisce solo il 37% delle esportazioni israeliane, lasciando fuori settori cruciali come high-tech e difesa. L’impatto stimato – 227 milioni di euro l’anno – è irrisorio rispetto ai miliardi di aiuti statunitensi. Non c’è embargo sulle armi, non ci sono misure su tecnologia e cybersecurity, mentre le sanzioni personali contro i ministri estremisti Ben Gvir e Smotrich sono più simboliche che reali. In più, le divisioni interne all’UE rischiano di bloccare tutto: basta il veto di Orbán a rendere impossibili le misure individuali, mentre senza Italia o Germania non si raggiunge la maggioranza per quelle commerciali.

La Spagna ha chiesto molto di più: sospensione dell’accordo di associazione con Israele, embargo totale sulle armi, sanzioni mirate ai leader israeliani responsabili delle violazioni. Una linea condivisa con Irlanda e Paesi Bassi, che rompe l’immobilismo europeo. La Commissione, invece, ha scelto la prudenza, temendo ritorsioni americane e proteggendo i propri interessi strategici. Resta il fatto che, a livello europeo, la posizione spagnola è minoritaria e incontra ostacoli enormi. Persino in patria il governo subisce critiche: le parole a Bruxelles non si sono ancora tradotte in atti concreti come lo stop unilaterale al commercio di armi.

Il giudizio severo sulla proposta di sanzioni UE, per quanto fondato, rischia però di essere totale, senza non cogliere un barlume di positività: l’importanza del gesto politico nonostante la mancanza di una efficacia immediata. Perché se è vero che queste sanzioni non fermeranno la guerra, è altrettanto vero che segnano una rottura con anni di paralisi europea. Qualcosa di buono nelle proposte UE si può fare lo sforzo di vedere. Per la prima volta, l’UE riconosce formalmente che Israele viola l’articolo 2 dell’accordo di associazione, che impone il rispetto dei diritti umani. È un precedente giuridico importante, che in futuro potrà essere invocato per misure più dure. C’è poi il valore simbolico: l’Europa, pur tra mille contraddizioni, rompe un tabù e mette in discussione le relazioni privilegiate con Israele. Questo alimenta il dibattito pubblico, costringe governi riluttanti come Germania e Italia a esporsi, e legittima la pressione della società civile. Si tratta insomma di un primo passo timido e inefficace, che difficilmente cambierà la linea di Netanyahu. Ma la sua importanza sta altrove: nel creare un precedente, nell’aprire una discussione, nel mostrare che anche l’UE non può più restare immobile.

L’ONU certifica il genocidio a Gaza

L’ONU certifica il genocidio a Gaza

La Commissione indipendente di inchiesta dell’ONU sui Territori palestinesi occupati ha concluso, dopo due anni di indagini, che a Gaza si stanno realizzando atti qualificabili come genocidio ai sensi della Convenzione del 1948. Nel rapporto, pubblicato il 16 settembre 2025, si riconosce che Israele ha commesso quattro delle cinque condotte tipiche del genocidio: uccidere membri del gruppo; causare gravi lesioni fisiche e mentali ai membri del gruppo; sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita calcolate per portarlo alla distruzione fisica, totale o parziale; imporre misure volte a prevenire le nascite all’interno del gruppo.

Elemento decisivo è l’intenzionalità genocidaria. La Commissione afferma che le autorità israeliane intendevano uccidere il maggior numero possibile di palestinesi, consapevoli che le strategie adottate – bombardamenti massicci in aree densamente abitate, blocco di cibo, acqua e medicinali, attacchi a ospedali, rifugi e convogli di evacuazione – avrebbero provocato morti di massa, inclusi bambini. Le vittime, si sottolinea, sono state colpite non come singoli individui ma in quanto palestinesi, cioè membri di un gruppo nazionale protetto dal diritto internazionale.

Il rapporto colloca la guerra di Gaza in un quadro storico più ampio: decenni di occupazione e colonizzazione, pratiche di apartheid e negazione del diritto all’autodeterminazione. L’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 è qualificato come crimine di guerra, ma la Commissione osserva che non costituiva una minaccia esistenziale per Israele e non può giustificare operazioni militari tese alla “vendetta e punizione collettiva”. Obiettivi dichiarati come la liberazione degli ostaggi e la neutralizzazione di Hamas, si legge, hanno mascherato lo scopo reale: la distruzione della comunità palestinese di Gaza.

Nelle raccomandazioni finali, la Commissione chiede a Israele di interrompere immediatamente le pratiche genocidarie e dichiarare un cessate il fuoco, e agli Stati terzi di adottare un embargo militare, collaborare con le corti internazionali e intervenire per fermare le violazioni. Il rapporto, che sarà presentato all’Assemblea generale a ottobre, rappresenta il primo riconoscimento formale da parte di un organo delle Nazioni Unite della responsabilità statale di Israele per genocidio a Gaza.

La Commissione è composta da tre esperti indipendenti di fama internazionale:

  • Navi Pillay, presidente della Commissione. Giurista, già Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (2008-2014) e giudice presso la Corte penale internazionale per il Ruanda (ICTR) e la Corte penale internazionale (CPI). Figura di massimo rilievo nel diritto internazionale e nei meccanismi di giustizia transnazionale;
  • Miloon Kothari, relatore speciale ONU sul diritto a un alloggio adeguato (2000-2008), architetto e pianificatore urbano, impegnato da decenni nei movimenti internazionali per i diritti economici, sociali e culturali;
  • Chris Sidoti, giurista e attivista per i diritti umani, già Commissario australiano per i diritti umani e membro di diverse indagini e missioni ONU, con lunga esperienza nelle organizzazioni non governative e nei sistemi di monitoraggio internazionale.

Gaza City, l’occupazione che aggrava la catastrofe

Gaza City, l’occupazione israeliana che aggrava la catastrofe

Dal 15-16 settembre l’IDF ha lanciato l’offensiva su Gaza City: in poche ore centinaia di civili sono morti e decine di migliaia si sono messi in fuga lungo la costa verso il sud. Organizzazioni internazionali parlano di una città già in stato di carestia e ora travolta da un esodo forzato, con corridoi umanitari intermittenti e punti di accesso agli aiuti chiusi o inaffidabili. (Reuters)

Le ragioni ufficiali israeliane — smantellare la struttura militare di Hamas, liberare gli ostaggi, ridurre i rischi ai civili — si scontrano con una dura realtà operativa: solo una parte della popolazione è riuscita a evacuare, molte aree restano densamente popolate e ogni avanzata richiede presidi che l’IDF fatica a garantire senza richiamare massicciamente riservisti. Il capo di stato maggiore Eyal Zamir aveva avvertito che l’occupazione su larga scala rischia di mettere in pericolo gli ostaggi e trascinare Israele in una lunga guerriglia urbana. (JPost)

Il risultato più probabile è dunque un paradosso: vittorie tattiche locali accompagnate da perdite umanitarie massicce e nessuna soluzione politica per il “dopo”. A ciò si aggiunge il rischio — denunciato da osservatori e giuristi — che l’obiettivo reale diventi lo svuotamento forzato della città e la riconcentrazione della popolazione nell’estremo sud di Gaza in “campi umanitari”, nella prospettiva dell’espulsione. Una prospettiva respinta dall’Egitto e condannata come illegale dagli organismi internazionali. (Ocha)

Quel che serve ora è chiaro: corridoi umanitari realmente garantiti, uno stop alle evacuazioni forzate e una forte pressione diplomatica internazionale per negoziare un immediato cessate il fuoco che protegga civili e liberi gli ostaggi. Senza una strategia politica credibile, ogni “battaglia definitiva” rischia di ripetersi, lasciando dietro di sé solo più morte e distruzione.

Tre inganni sul genocidio di Gaza

Tre sono gli argomenti ingannevoli dell’articolo di Ernesto Galli Della Loggia contro l’uso della parola “genocidio” per definire quanto Israele sta facendo a Gaza.

Il primo è fingere che “genocidio” sia solo una parola bandiera agitata da una nicchia movimentista e poi adottata da tutti in coro. Come se non esistesse una causa aperta alla Corte Internazionale di Giustizia, che ha ammesso la plausibilità del genocidio e ordinato a Israele di prevenirlo. Come se non ci fossero rapporti ONU e ONG, o un dibattito storico e giuridico documentato. Si può non condividere l’uso del termine, ma ignorarne la plausibilità e ridurre tutto a un riflesso emotivo o malevolo è una scelta che rivela debolezza, non rigore.

Il secondo è scivolare nel sarcasmo, dopo aver rifiutato di prendere sul serio le tesi avversarie. Allora Israele, “stato genocida”, sarebbe inefficiente rispetto alla Germania nazista perché ha ucciso solo 60 mila persone in due anni, invece di milioni. Ma il genocidio non si misura in quantità di morti: la differenza non sta nei mezzi ma nel contesto. La Germania agì dentro una guerra totale, senza diritto internazionale codificato, senza opinione pubblica libera, senza alleati democratici da cui dipendere. Israele invece è vincolato da tutti questi fattori, e se intende spingere verso la distruzione del popolo palestinese deve farlo in modo mitigato e graduale.

Il terzo è assumere la Shoah come unico modello genocida e farne un’asticella al di sotto della quale non può esserci genocidio. Ma la memoria della Shoah non serve a fissare un metro di misura, bensì a riconoscere e prevenire ogni progetto di deumanizzazione e distruzione. Altri genocidi di entità numericamente inferiore – dal Ruanda a Srebrenica (riconosciuto genocidio dalla Corte internazionale nel 2007) – non hanno banalizzato Auschwitz, ma hanno mostrato che il crimine può assumere forme diverse. Ogni genocidio è eccezionale. L’alternativa è considerare “normale” Gaza, come semplice sfondo alle notizie quotidiane.

L’uso del termine “genocidio” deve misurarsi con la definizione della Convenzione ONU del 1948: «atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso». È plausibile riconoscervi il caso palestinese: Israele percepisce i palestinesi come minaccia demografica, rifiuta sia i due Stati sia lo Stato unico binazionale, e ormai perfino lo status quo di apartheid, giudicato insostenibile dopo il 7 ottobre 2023. Restano la pulizia etnica e il genocidio. Forse non condivisi integralmente dai vertici israeliani, ma certo presenti come opzione politica e, da quel che vediamo, come pratica sul terreno.

L’uso di termini quali “strage”, “massacro”, “eccidio” proposti dall’autore in alternativa a “genocidio” sono spesso usati per descrivere azioni violente e concentrate nel tempo. Come l’attacco del 7 ottobre, che non a caso nominiamo con la data di un giorno. Questi termini non rendono invece conto di un’azione prolungata per anni in forme che tendono alla distruzione totale delle condizioni materiali di vita di un intero popolo.

Se si è in dubbio, non è obbligatorio assumere una posizione netta e definitiva adesso. Serve esprimersi e agire per fermare l’azione militare contro la popolazione di Gaza, altrimenti il genocidio, se non c’è, ci sarà. Il pericolo è riconosciuto anche da voci che negano la definizione: Liliana Segre e Benny Morris, intervistati per contraddire David Grossman, hanno ammesso che quando si arriva ad affamare e a uccidere in massa la popolazione, il rischio di genocidio c’è.

Non banalizzare il dibattito, dunque, ma riconoscere almeno la plausibilità del genocidio e l’imperativo di prevenirlo.

Il disimpegno israeliano dalla Striscia di Gaza

Il cosiddetto “disimpegno unilaterale” di Israele da Gaza del 2005 viene spesso presentato come un gesto di pace, vanificato dalla reazione palestinese. In realtà si trattò di una scelta strategica, mirata a rafforzare Israele sul piano interno e internazionale, non a rilanciare un processo negoziale.

Innanzitutto, i coloni israeliani nella Striscia erano circa 8.000, una cifra marginale rispetto alle centinaia di migliaia insediati in Cisgiordania. Il loro mantenimento comportava costi economici e militari sproporzionati. La rimozione rispondeva quindi a un’esigenza di alleggerimento, più che a una concessione.

In secondo luogo, l’evacuazione da Gaza consentiva di concentrare risorse e consenso politico sul consolidamento della Cisgiordania, considerata strategicamente molto più importante. Lo stesso Ariel Sharon dichiarò che il piano avrebbe permesso a Israele di “congelare” la situazione sul terreno.

La logica del congelamento venne esplicitata nell’ottobre 2004 dal consigliere senior di Sharon, Dov Weissglass, in un’intervista a Haaretz del 6 ottobre 2004:

«Il significato del piano di disimpegno è il congelamento del processo di pace, e quando si congela questo processo, si impedisce la creazione di uno Stato palestinese e si impedisce una discussione sui rifugiati, sui confini e su Gerusalemme. […] Di fatto, l’intero pacchetto chiamato Stato palestinese, con tutto ciò che comporta, è stato rimosso a tempo indeterminato dalla nostra agenda. E tutto questo con autorità e permesso, con la benedizione presidenziale e la ratifica di entrambe le Camere del Congresso».

Un terzo aspetto riguarda la politica palestinese: consegnare formalmente Gaza all’Autorità Nazionale Palestinese significava affidarle un compito ingestibile, tra un’economia asfissiata e l’ascesa di Hamas. La divisione tra Hamas e Fatah era prevedibile, e ha consentito a Israele di sostenere che non esiste un interlocutore palestinese unitario e credibile.

Infine, il ritiro non pose fine all’occupazione: Israele mantenne il controllo dello spazio aereo, delle acque territoriali, dei valichi, del registro della popolazione e delle importazioni. Le Nazioni Unite e la Banca Mondiale hanno continuato a considerare Gaza un territorio occupato.

Il disimpegno, dunque, non fu un’offerta mal ripagata dai palestinesi, ma un’operazione unilaterale volta a ridurre i costi, dividere i palestinesi e consolidare il controllo israeliano sulla Cisgiordania, congelando al tempo stesso la prospettiva di uno Stato palestinese.

IAGS: “A Gaza è genocidio”

La International Association of Genocide Scholars (IAGS), la più grande associazione accademica al mondo di studiosi del genocidio fondata nel 1994, ha approvato una risoluzione il 31 agosto 2025 con l’86% dei voti favorevoli tra i membri partecipanti, affermando che le politiche e le azioni di Israele a Gaza soddisfano i criteri legali per definire il conflitto un genocidio secondo l’articolo II della Convenzione delle Nazioni Unite del 1948 sul genocidio. La risoluzione di tre pagine invita Israele a cessare immediatamente atti che costituiscono genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità contro i palestinesi di Gaza.

L’IAGS ha basato questa valutazione sulle azioni di Israele durante un conflitto protratto di 22 mesi, tra cui attacchi a infrastrutture essenziali come il settore sanitario, assistenza umanitaria, scuole e case, la morte o il ferimento di circa 50.000 bambini secondo l’UNICEF, la forzata espulsione della maggior parte dei 2,3 milioni di palestinesi di Gaza e dichiarazioni di leader israeliani che denigrano e minacciano di distruggere Gaza. Questi elementi sono considerati da molteplici esperti e organizzazioni come indicativi di un intento genocida, ossia l’intento di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. La risoluzione ha anche rilevato il sostegno di numerosi documenti ONU e ONG a questa conclusione.

Questa ulteriore autorevole presa di posizione smentisce i sostenitori di Israele, che rifiutano di riconoscere persino la plausibilità del genocidio, fondando il loro rifiuto sul confronto diretto con la Shoah: il genocidio dovrebbe essere fine a se stesso e pianificato allo scopo di eliminare un intero popolo. Ma la Shoah non è l’unico modello di genocidio.

La definizione di genocidio

La definizione giuridica di genocidio risale al 9 dicembre 1948. Fu deliberata dall’Assemblea generale dell’ONU nella Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, scritta con il contributo di Raphael Lemkin. L’articolo II della Convenzione definisce esplicitamente il genocidio nell’ambito del diritto internazionale:

Per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale:

  • (a) uccisione di membri del gruppo;
  • (b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo;
  • (c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;
  • (d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo;
  • (e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro.

Quale di questi atti non è compreso nell’azione militare israeliana a Gaza?

La conseguenza “obbligata”

Il genocidio rischia di apparire come la conseguenza “obbligata” di un governo israeliano dominato dall’estremismo nazionalista, se si escludono tutte le soluzioni alternative. L’ex presidente della Knesset, Avraham Burg, disse che il conflitto israelo-palestinese non si conclude, perché Israele non sa scegliere tra la questione territoriale e la questione demografica.

  • Una sola soluzione è conforme al diritto internazionale. Due popoli, due stati. Israele riconoscere l’autodeterminazione del popolo palestinese e gli permette di costituirsi in stato sovrano e indipendente sui Territori Palestinesi Occupati. Questo implica da parte di Israele la rinuncia a Gaza e alla Cisgiordania e il ritiro dei coloni, a meno che i coloni non accettino di sottostare alla sovranità palestinese.
  • Una seconda soluzione non compatibile con le attuali risoluzioni ONU, potrebbe essere comunque civile e democratica. Israele annette i Territori Palestinesi Occupati e concede la cittadinanza ai suoi abitanti, che vanno ad aggiungersi alla minoranza arabo-israeliana, la quale, seppure discriminata come gruppo, gode dei diritti individuali e di condizioni di vita dignitose, perciò coesiste pacificamente con gli ebrei israeliani. Questa soluzione implica che gli ebrei israeliani rinuncino alla garanzia del primato demografico: in futuro potrebbero perdere la maggioranza.
  • La terza soluzione è stata praticata fino al 7 ottobre 2023. Un regime di segregazione di fatto. Gaza assedia, Cisgiordania occupata e colonizzata, ma non annesse. Questa soluzione però è instabile, induce i palestinesi alla resistenza violenta, e dopo l’attacco di Hamas è diventata intollerabile per un governo già indisponibile alle due precedenti soluzioni.

Cosa rimane? L’espulsione dei palestinesi, una pulizia etnica contro una popolazione senza possibilità di fuga, che diventa genocidio.

Global Sumud Flotilla: disobbedienza civile internazionale

A Genova, la ONG Music for Peace ha raccolto più di 300 tonnellate di cibo per Gaza. 45 tonnellate saranno caricate sulle navi della Global Sumud Flotilla, che cercheranno di rompere il blocco navale israeliano. 95-135 tonnellate saranno conservate a Genova fino a gennaio, nell’attesa e speranza che arrivi il permesso di entrare a Gaza. Altrimenti, saranno inviate in Sudan, altro paese afflitto dalla guerra e dalla carestia. 120-160 tonnellate saranno subito inviate in Sudan, dove Music for Peace lavora da sei anni. Dal 1994, la ONG ha gestito altre missioni nel Deserto del Saharawi, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Ucraina, Kurdistan, Iraq, Afghanistan (cfr: www.ilpost.it).

La prevedibile impossibilità di raggiungere Gaza non solo spiega la scelta di dirottare e conservare parte degli aiuti. Ma fornisce anche alle fonti filoisraeliane il pretesto per bollare l’iniziativa come “messinscena mediatica”. Inutile, perché a Gaza non c’è un porto per l’attracco del tipo di navi delle ONG. Illegale, perché la spedizione umanitaria punterebbe a forzare il blocco israeliano riconosciuto dai procedimenti internazionali. Inservibile perché se anche la Flotilla raggiungesse Gaza, non avrebbe le capacità di compensare le carenze delle Nazioni Unite e della GHF (cfr: www.setteottobre.com). La GHF, in realtà è un’organizzazione di parte creata da Israele e Stati Uniti per sostituirsi proprio agli organismi internazionali di aiuto.

È vero che Gaza non dispone di un porto adeguato. Ma questo non è un dato neutro: è il frutto diretto del blocco israeliano. I pescatori non possono uscire oltre poche miglia nautiche, i progetti di ampliamento del porto sono stati bloccati da Israele, e qualunque tentativo di costruire infrastrutture marittime è stato bombardato. Dire che la flottiglia è inutile perché non può attraccare equivale a giustificare il blocco invece di metterlo in discussione. Inoltre, le imbarcazioni della Flotilla non sono grandi cargo: sono barche di dimensioni medio-piccole, pensate per dimostrare simbolicamente che rompere l’assedio è possibile. Ed è già successo, alcune navi della Flotilla sono riuscite a raggiungere Gaza nel 2008.

Il blocco navale di Israele su Gaza — formalmente giustificato come misura di sicurezza per prevenire il traffico di armi verso Hamas — non è legittimo. Anzi è stato condannato da numerosi esperti di diritto internazionale e da organismi dell’ONU come una forma di punizione collettiva, dunque illegale ai sensi della IV Convenzione di Ginevra. Nel 2011 la missione d’inchiesta delle Nazioni Unite sul raid contro la Mavi Marmara definì “illegale” proprio l’assalto israeliano in acque internazionali. È vero che una commissione Palmer delle Nazioni Unite ha giudicato “legale” il blocco navale. Ma quella valutazione fu parziale, contestata e mai adottata dall’Assemblea generale. Oggi, con la Corte internazionale di giustizia che ha riconosciuto “plausibile” il rischio di genocidio a Gaza, insistere nel definire il blocco “legale” è troppo forzato.

La Flotilla trasporta aiuti simbolici (es. formula per bambini, farina, medicinali). Ma il suo scopo principale è politico e mediatico: denunciare il blocco degli aiuti dell’ONU, la reazione timida o assente dei governi europei, la gravità dell’assedio israeliano. Nessuno tra i promotori della Freedom Flotilla sostiene che le loro barche a vela possano sostituire il lavoro delle Nazioni Unite o coprire i bisogni umanitari di Gaza. Secondo le agenzie ONU, per coprire i soli bisogni alimentari e nutrizionali di base a Gaza servono oltre 62.000 tonnellate di aiuti alimentari ogni mese. Questo equivale a circa 2.000 tonnellate di cibo al giorno.

La funzione della Global Sumud Flotilla è politica e simbolica: mostrare al mondo che civili disarmati sono disposti a sfidare un assedio che affama oltre due milioni di persone. Sostenere che la Flotilla è inutile perché non risolve il problema equivale a dire che una manifestazione di piazza è inutile perché non cambia le leggi da sola. L’efficacia sta nella rottura del silenzio e nella denuncia dell’illegittimità del blocco.

La Global Sumud Flotilla non è una “messinscena mediatica”, ma un atto di disobbedienza civile internazionale contro un blocco che alimenta una crisi umanitaria giunta al limite — se non oltre il limite — della carestia e del genocidio. Gli aiuti che porta sono modesti, ma il loro valore simbolico e politico è enorme: ricordano al mondo che a Gaza milioni di persone sono private del necessario per vivere. Invece di liquidarla come inutile, sarebbe più onesto chiedersi perché sia necessario ricorrere a un’iniziativa così estrema per rivendicare un diritto elementare: che la popolazione civile di Gaza riceva gli aiuti fondamentali.