I prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane

I prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane

Dopo lo scambio dei prigionieri del 13 ottobre 2025 — in cui Israele ha rilasciato circa duemila reclusi palestinesi in cambio di venti ostaggi israeliani detenuti da Hamas — il numero complessivo di palestinesi nelle carceri israeliane è sceso a circa 9.100–9.400 persone. Prima di questo accordo, a inizio ottobre, i detenuti erano circa 11.056, secondo le organizzazioni HaMoked e Mondoweiss, anche se le cifre possono variare per nuovi arresti, rilasci o decessi in custodia: almeno 77 palestinesi sono morti dal 7 ottobre 2023.

Le prigioni e la geografia della detenzione

I prigionieri palestinesi sono rinchiusi in diverse strutture del Servizio Penitenziario Israeliano, spesso lontane dai territori occupati, il che rende difficili le visite familiari. Tra le principali: Ofer vicino a Ramallah, usata per detenzioni amministrative e processi militari; Ktzi’ot nel Negev, una delle più grandi, che ospita migliaia di detenuti inclusi quelli da Gaza; Nafha, anch’essa nel Negev, nota per le condizioni severe; Megiddo nel nord, dove sono rinchiusi molti minori e prigionieri della Cisgiordania; Ramon per i casi di alto profilo; Damon, nel nord, dedicata soprattutto alle donne. A queste si aggiungono Gilboa, Ashkelon, Hasharon, Hadarim e la base militare di Sde Teiman, dove sono detenuti palestinesi di Gaza classificati come “combattenti illegali”.

Composizione e profili dei detenuti

La maggior parte dei prigionieri è composta da uomini adulti, che rappresentano il 95-98% del totale. Le donne sono tra 40 e 80, inclusa almeno una detenuta di Gaza, Siham Abu Salem. I minori, tra 200 e 300, vengono spesso arrestati per azioni come il lancio di pietre o la partecipazione a proteste, con detenzioni medie di 16-17 giorni.

Circa il 25-30% dei detenuti da Gaza è considerato miliziano o affiliato a gruppi armati come Hamas o Jihad Islamica, mentre il 70-75% sono civili comuni, fermati per proteste, legami politici o senza accuse precise. In generale, il 40% degli uomini palestinesi sotto occupazione è passato almeno una volta per il carcere israeliano.

Condanne e detenzioni amministrative

Solo il 15-20% dei detenuti ha ricevuto una condanna vera e propria, con pene da pochi mesi all’ergastolo per reati di sicurezza giudicati da corti militari. Il 30-35% è in detenzione amministrativa, senza processo o accuse formali, basata su presunte prove segrete e rinnovabile ogni 3-6 mesi. Il resto è in attesa di giudizio o sotto indagine.

La durata media della detenzione amministrativa è di un anno, ma può prolungarsi indefinitamente. Le condanne variano da 1-5 anni per casi minori a oltre 10 anni per i miliziani. I minori restano in media 16-17 giorni, mentre la durata complessiva di un ciclo di detenzione è di 1-2 anni, con casi estremi fino a 24 anni.

Dal 1967, anno dell’occupazione di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est, almeno un milione di palestinesi sono passati per le carceri israeliane — secondo Addameer e il Palestinian Prisoners’ Society — in quella che molte organizzazioni per i diritti umani definisce una forma di controllo sistematico dell’occupazione.

Condizioni di vita e abusi documentati

Le condizioni di detenzione sono drammaticamente peggiorate dopo il 7 ottobre 2023. Testimonianze e rapporti di Human Rights Watch, Amnesty International e B’Tselem descrivono abusi sistematici, sovraffollamento e privazioni: percosse, legature estreme, umiliazioni fisiche e verbali, esposizione a rumori assordanti per giorni, e — in casi documentati — stupri di gruppo e violenze sessuali, soprattutto nella base di Sde Teiman, definita da osservatori ONU un “campo di tortura”.

Almeno 75 palestinesi, inclusi bambini e donne, sono morti in detenzione dal 2023, spesso per malnutrizione, torture o mancanza di cure mediche. Esperti ONU parlano di “crimini contro l’umanità”, denunciando un clima di impunità totale: le indagini israeliane sono rare e inefficaci, in violazione delle Convenzioni di Ginevra e della Convenzione contro la Tortura.

Sovraffollamento e privazioni materiali

Le carceri israeliane non sono più in grado di contenere i detenuti. Già prima del 2023, celle progettate per 5-6 persone ne ospitavano fino a 12; oggi, con oltre 9.000 palestinesi rinchiusi, il Servizio Penitenziario Israeliano ha dichiarato uno stato di emergenza. In strutture come Nafha, Ofer e Ktzi’ot, i detenuti dormono su materassi a terra in spazi inferiori ai 3 m² per persona, violando una sentenza della Corte Suprema israeliana del 2017.

Le condizioni igieniche favoriscono malattie cutanee e respiratorie, mentre i trasferimenti improvvisi in campi temporanei peggiorano ulteriormente la situazione.

Anche il cibo è diventato un mezzo di punizione. Dal 2023, le razioni si sono ridotte a tre cucchiai di riso o fagioli secchi al giorno, con pane e yogurt come colazione. La Corte Suprema israeliana, nel settembre 2025, ha riconosciuto che lo Stato viola il dovere legale di fornire tre pasti nutrienti quotidiani, ma le restrizioni imposte dal ministro Itamar Ben-Gvir restano in vigore, nonostante gli appelli dell’ONU.

Assistenza legale e isolamento

L’accesso alla difesa legale è gravemente limitato. Circa il 37% dei minori è detenuto senza accuse, e dal 2023 le visite degli avvocati sono sistematicamente ostacolate o annullate. Il Comitato Internazionale della Croce Rossa non ha più accesso regolare alle carceri. Organizzazioni come HaMoked e Addameer offrono assistenza pro bono, ma subiscono restrizioni, divieti e accuse di “terrorismo”. L’ONU definisce questo isolamento una forma di punizione disumana.

Figure simboliche della resistenza

Tra i prigionieri più noti rimasti dopo lo scambio del 13 ottobre spiccano:

  • Marwan Barghouti, leader di Fatah e figura chiave delle due Intifade, condannato nel 2004 a cinque ergastoli.
  • Ahmed Saadat, segretario generale del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), condannato nel 2008 a 30 anni per il suo coinvolgimento nell’assassinio del ministro israeliano Rehavam Zeevi.
  • Abdallah Al-Barghouti, militante di Hamas, condannato nel 2004 a 67 ergastoli.
  • Ibrahim Hamed, ex comandante di Hamas in Cisgiordania, con 54 ergastoli dal 2006.
  • Hassan Salama, di Gaza, con 48 ergastoli dal 1996.
  • Dr. Iyad Abu Safiya, medico e direttore dell’ospedale Al-Awda, detenuto senza accuse formali in via amministrativa.

Queste figure, viste da Israele come terroristi, restano per molti palestinesi simboli di resistenza e leadership. Il loro rilascio dipenderà da futuri scambi di prigionieri o decisioni politiche, non da percorsi giudiziari ordinari.

Reazioni e campagne internazionali

I processi contro i principali detenuti palestinesi – tra cui Marwan Barghouti, Ahmed Saadat, Abdallah Al-Barghouti, Ibrahim Hamed e Hassan Salama – sono stati contestati da organizzazioni per i diritti umani per gravi violazioni delle garanzie processuali. Amnesty International, B’Tselem e Human Rights Watch denunciano l’uso sistematico di confessioni estorte sotto coercizione, l’assenza di prove materiali dirette e il ricorso a “prove segrete” non accessibili alla difesa. Nelle corti militari israeliane, dove il tasso di condanna dei palestinesi supera il 99%, i giudici sono ufficiali dell’esercito e i processi avvengono spesso a porte chiuse, senza pieno diritto alla difesa. Secondo l’ONU, questo sistema viola gli standard internazionali di equità e la Quarta Convenzione di Ginevra, che tutela i detenuti nei territori occupati. Israele sostiene che le corti militari siano necessarie per motivi di sicurezza, ma le indagini su abusi restano eccezionali e raramente efficaci.

Diverse reti globali, come la Samidoun Palestinian Prisoner Solidarity Network, il Collettivo Palestine Vaincra e Defence for Children International – Palestine, promuovono campagne per la liberazione dei detenuti, in particolare di Marwan Barghouti e dei minori. Amnesty International ha definito migliaia di prigionieri palestinesi “moneta di scambio” e chiede il rilascio immediato di chi è detenuto arbitrariamente. Human Rights Watch e l’Associazione per i Diritti Civili in Israele hanno ottenuto vittorie legali parziali, come la sentenza contro le restrizioni alimentari, ma le violazioni continuano.

Riconoscere lo Stato di Palestina

Il riconoscimento dello Stato di Palestina

Secondo la Convenzione di Montevideo del 1933, perché uno Stato sia riconosciuto deve avere tre requisiti: un popolo, un territorio, un governo. La Palestina li possiede: il popolo palestinese, i territori di Gaza e Cisgiordania, il governo legittimo dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP).

Quasi tutti i paesi del mondo, fuori dall’Occidente, hanno già riconosciuto la Palestina. Ora, per iniziativa della Francia, anche diversi paesi occidentali hanno compiuto questo passo: Portogallo, Regno Unito, Canada e Australia. Il Belgio si appresta a farlo.

Il governo israeliano è fermamente contrario, sostenendo che il riconoscimento della Palestina equivarrebbe a premiare il terrorismo di Hamas e che uno Stato palestinese costituirebbe una minaccia permanente alla sicurezza di Israele. Molti sostenitori di Israele aggiungono che un riconoscimento oggi sarebbe inutile, senza effetto pratico; semmai dovrebbe essere il coronamento di un processo di pace.

In Italia, incalzata dalle opposizioni, Giorgia Meloni propone una risoluzione parlamentare che subordina il riconoscimento della Palestina alla liberazione degli ostaggi e all’esclusione di Hamas dal futuro governo palestinese. Una posizione che sembra più un pretesto per rinviare il riconoscimento e, al tempo stesso, mostrarsi disponibile per non restare isolata mentre una parte dell’Europa e l’opinione pubblica si spostano verso la causa palestinese.

Questo spostamento diplomatico e popolare non nasce, è ovvio, dal desiderio di ricompensare il terrorismo, ma dalla necessità di arginare la distruzione della società palestinese. Il governo israeliano vuole imporre un fatto compiuto: svuotare o rendere invivibile la Striscia di Gaza, espandere i coloni in Cisgiordania, rendere impossibile la nascita di uno Stato palestinese. Gli Usa di Trump lasciano fare. La Francia di Macron, invece, promuove un’iniziativa diplomatica per contrastare questa strategia e salvare la prospettiva di uno Stato palestinese.

L’idea che la Palestina, una volta riconosciuta, sarebbe solo una base terroristica è essa stessa una visione terroristica. Non considera che il consenso al terrorismo nasce proprio dalla negazione dei diritti: il diritto all’autodeterminazione e, con esso, la possibilità di muoversi, avere una casa, lavorare, commerciare, costruire una comunità, non essere fermati, imprigionati, uccisi in modo arbitrario. Realizzata l’aspirazione nazionale palestinese, verrebbe meno anche il principale terreno su cui cresce il sostegno a organizzazioni che attaccano Israele.

Tre inganni sul genocidio di Gaza

Tre sono gli argomenti ingannevoli dell’articolo di Ernesto Galli Della Loggia contro l’uso della parola “genocidio” per definire quanto Israele sta facendo a Gaza.

Il primo è fingere che “genocidio” sia solo una parola bandiera agitata da una nicchia movimentista e poi adottata da tutti in coro. Come se non esistesse una causa aperta alla Corte Internazionale di Giustizia, che ha ammesso la plausibilità del genocidio e ordinato a Israele di prevenirlo. Come se non ci fossero rapporti ONU e ONG, o un dibattito storico e giuridico documentato. Si può non condividere l’uso del termine, ma ignorarne la plausibilità e ridurre tutto a un riflesso emotivo o malevolo è una scelta che rivela debolezza, non rigore.

Il secondo è scivolare nel sarcasmo, dopo aver rifiutato di prendere sul serio le tesi avversarie. Allora Israele, “stato genocida”, sarebbe inefficiente rispetto alla Germania nazista perché ha ucciso solo 60 mila persone in due anni, invece di milioni. Ma il genocidio non si misura in quantità di morti: la differenza non sta nei mezzi ma nel contesto. La Germania agì dentro una guerra totale, senza diritto internazionale codificato, senza opinione pubblica libera, senza alleati democratici da cui dipendere. Israele invece è vincolato da tutti questi fattori, e se intende spingere verso la distruzione del popolo palestinese deve farlo in modo mitigato e graduale.

Il terzo è assumere la Shoah come unico modello genocida e farne un’asticella al di sotto della quale non può esserci genocidio. Ma la memoria della Shoah non serve a fissare un metro di misura, bensì a riconoscere e prevenire ogni progetto di deumanizzazione e distruzione. Altri genocidi di entità numericamente inferiore – dal Ruanda a Srebrenica (riconosciuto genocidio dalla Corte internazionale nel 2007) – non hanno banalizzato Auschwitz, ma hanno mostrato che il crimine può assumere forme diverse. Ogni genocidio è eccezionale. L’alternativa è considerare “normale” Gaza, come semplice sfondo alle notizie quotidiane.

L’uso del termine “genocidio” deve misurarsi con la definizione della Convenzione ONU del 1948: «atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso». È plausibile riconoscervi il caso palestinese: Israele percepisce i palestinesi come minaccia demografica, rifiuta sia i due Stati sia lo Stato unico binazionale, e ormai perfino lo status quo di apartheid, giudicato insostenibile dopo il 7 ottobre 2023. Restano la pulizia etnica e il genocidio. Forse non condivisi integralmente dai vertici israeliani, ma certo presenti come opzione politica e, da quel che vediamo, come pratica sul terreno.

L’uso di termini quali “strage”, “massacro”, “eccidio” proposti dall’autore in alternativa a “genocidio” sono spesso usati per descrivere azioni violente e concentrate nel tempo. Come l’attacco del 7 ottobre, che non a caso nominiamo con la data di un giorno. Questi termini non rendono invece conto di un’azione prolungata per anni in forme che tendono alla distruzione totale delle condizioni materiali di vita di un intero popolo.

Se si è in dubbio, non è obbligatorio assumere una posizione netta e definitiva adesso. Serve esprimersi e agire per fermare l’azione militare contro la popolazione di Gaza, altrimenti il genocidio, se non c’è, ci sarà. Il pericolo è riconosciuto anche da voci che negano la definizione: Liliana Segre e Benny Morris, intervistati per contraddire David Grossman, hanno ammesso che quando si arriva ad affamare e a uccidere in massa la popolazione, il rischio di genocidio c’è.

Non banalizzare il dibattito, dunque, ma riconoscere almeno la plausibilità del genocidio e l’imperativo di prevenirlo.

Resistere senza farsi distruggere

L’essere integralmente qualcosa non mi appartiene, perciò è probabile che non sia un pacifista integrale. Sono contro la violenza e l’uso della forza. Però, in certi casi e a certe condizioni l’ammetto. Quando ha dalla sua una ragione giusta e fondamentale; se è capace di colpire in modo mirato e proporzionato; qualora sia efficace e rapida rispetto a scopi definiti. Il solo aver ragione è insufficiente. Coinvolgere innocenti e inermi è inammissibile. Prolungare il conflitto è disastroso, specie nel perseguire obiettivi confusi o improbabili. Queste condizioni per me valgono, sia se attacchi, sia se ti difendi.

Se ti difendi, la tua ragione è più nobile. Infatti, ogni aggressore cerca di appropriarsene per rivendicare a modo suo il diritto alla difesa. Il pubblico più sano è predisposto a solidarizzare con chi si difende: l’Ucraina invasa dalla Russia, i palestinesi massacrati dagli israeliani. Ma la solidarietà può incoraggiare a resistere e in questo sbaglia, se non ha i mezzi per offrire un sostegno concreto, se non rischia qualcosa in proprio.

L’Ucraina ha i mezzi per resistere, anche grazie all’aiuto occidentale. Tuttavia, la sua resistenza rallenta solo l’avanzata russa, non riesce a invertire il corso della guerra, che intanto si trascina da tre anni, bruciando la vita di una generazione di ucraini e anche di russi. Ne vale davvero la pena?

I palestinesi invece sono senza mezzi, a parte l’arsenale di Hamas che può infliggere un colpo a Israele e fare una circoscritta strage indiscriminata e perciò criminale, ma poi tutta la Striscia di Gaza è massacrata, devastata, affamata per mesi e anni. Hamas sopravvive mentre tutto ciò che la circonda muore. Ne vale davvero la pena?

L’indipendenza, la sovranità, l’autodeterminazione sono ideali e principi giusti. C’entrano con le condizioni materiali di esistenza, che sono il vero bene da salvaguardare. Ci si sente vivi a incarnare quegli ideali. Appunto, dovrebbero servire per vivere. Ma se muori a cosa servono? A far vivere altri che poi muoiono come te? Forse vivrai, moriranno i tuoi genitori, tua moglie, i tuoi figli, i tuoi amici. Vivrai, forse su una sedia a rotelle, se ce n’è ancora una disponibile. Oppure, tenendoti su due stampelle, mentre le tue gambe finiscono sopra il ginocchio. Potrai guardare tutto quello che non puoi toccare, perché ti hanno amputato le braccia senza anestesia. O non vedrai più nulla, perché sarai diventato cieco. Magari, invece sarai tutto intero, prigioniero in condizioni disumane.

Nella dolorosa desolazione della morte e della distruzione, che valore potrà ancora avere il motivo per cui hai combattuto o hanno combattuto altri a tuo nome, esponendoti al disastro? Quel valore non ti sarà reso dai tanti che alzano la tua bandiera sulle tastiere. Per non dire di quegli altri, pronti ad attraversare lo schermo per affermare che sei una fiscia sacrificabile o una fake news. E ti mostreranno mentre mangi la Nutella in un caffè di lusso.

Se pure il tuo sacrificio ottiene l’attenzione del mondo, molta parte di questo mondo è distratto, distante, ideologico, paranoico. T’iscrive dentro un conflitto più grande, una guerra fredda o uno scontro di civiltà e diventi il fantasma di un mostro. La tua fine è necessaria per un bene superiore, per qualche valore supremo, sulle orme dei nostri antenati del 1945, evocati ormai anche per giustificare una rissa. Oppure, sulla tua fine il mondo ci fa i soldi, vendendo armi, ruspe, servizi digitali, progetti di ricostruzione. Una parte del mondo manifesterà per te o salperà sulla nave per venirti a salvare, come atto politico e simbolico (onore a loro, perché in effetti rischiano). L’esito finale, però, difficilmente cambierà.

A volte la difesa, la resistenza è autodistruttiva, offre solo il pretesto al tuo carnefice per massacrarti ancora di più. Allora, la rinuncia, la resa, la fuga sono scelte dignitose. Anche la dignità vuole la vita e non la morte. La vita in salute. Ogni genitore ha il dovere di vivere finché i suoi figli non sono adulti e autosufficienti. Tutti i figli hanno il dovere di vivere finché i loro genitori non sono deceduti. La madre, dopo nove mesi di gravidanza e un parto, ha il diritto assoluto di non vedere il proprio figlio neonato spappolato dalle bombe o schiacciato sotto le macerie. E se la vita non si può costruire qui, si può andare altrove. Anche se, è vero che, pure spostarsi nel mondo e trovare accoglienza è diventata una guerra.

Qualcuno obietterà con l’esempio più alto: la Resistenza al nazifascismo. E avrebbe ragione. Ma quella lotta rientrava proprio nei criteri che ho delineato: aveva una ragione giusta e fondamentale; i suoi atti, per quanto duri, miravano a colpire un occupante e un regime oppressivo, cercando di preservare gli inermi; fu, nel suo contesto, efficace e rapida nel conseguire l’obiettivo definito di liberazione, anche grazie a una solidarietà internazionale concreta e determinante. Fu, in sostanza, una forza proporzionata al fine.

La resistenza palestinese: a cosa si oppone

La resistenza palestinese si oppone all’occupazione israeliana dei Territori Palestinesi Occupati (la Striscia di Gaza e la Cisgiordania). Una prima e immediata obiezione dice che Gaza non è più territorio occupato, perché Sharon ha ritirato i coloni nel 2005. Tuttavia, Israele ha mantenuto e ulteriormente stretto il controllo sui confini, lo spazio aereo e lo spazio marittimo di Gaza. Motivo per cui, secondo il diritto internazionale, Israele mantiene lo status di stato occupante anche nei confronti di Gaza. Inoltre, dall’ottobre 2023, tutta la Striscia di Gaza è sottoposta a una estrema punizione collettiva. Un massacro su larga scala, la distruzione della gran parte delle infrastrutture civili e dell’agricoltura, il blocco degli aiuti.

Un’obiezione più generale ricorda che la resistenza palestinese è precedente l’occupazione israeliana dei Territori. Inizia dalla costituzione dello stesso Stato d’Israele nel 1948, mentre Gaza era sotto l’Egitto e la Cisgiordania sotto la Giordania. Quindi è lecito pensare che i palestinesi resistono, non solo all’occupazione, ma all’esistenza stessa di Israele. Infatti, non hanno mai cercato di liberarsi dall’Egitto e dalla Giordania. D’altra parte, Hamas, l’organizzazione islamista che dagli anni ‘90 più di altri gruppi si distingue per la resistenza armata, non riconosce lo Stato d’Israele. Anzi ne propugna la fine nel suo statuto fondativo del 1988.

È vero che la resistenza palestinese precede la Guerra dei sei giorni (1967). I primi gruppi armati palestinesi si sono formati negli anni ‘50, per praticare attacchi contro Israele a partire soprattutto dalla Striscia di Gaza. Perché i combattenti palestinesi degli anni ‘50 lottavano contro Israele e non contro l’Egitto e la Giordania? Perché nel 1948 lo Stato di Israele aveva occupato il 78% della Palestina mandataria, espulso circa 700.000 palestinesi e distrutto centinaia di villaggi. Per i palestinesi degli anni ‘50, Israele stessa era l’occupazione e l’espropriazione delle terre palestinesi. La priorità della lotta era il Ritorno. Egitto e Giordania esercitavano una giurisdizione, anche con elementi duri, autoritari e repressivi. Però, non colonizzavano la terra dei palestinesi, non gli demolivano le case, non gli distruggevano gli uliveti, non gli chiudevano le strade, non li fermavano ai check-point, non li arrestavano e non li uccidevano quotidianamente.

Esaurite le generazioni palestinesi vittime della Nakba, la resistenza palestinese viene poi rilanciata e alimentata dall’occupazione israeliana del 1967, che perdura ancora oggi. Un’occupazione fatta di legge militare e colonizzazione. Contro la quale l’insurrezione vera e propria dei palestinesi inizia nel 1987 con la prima intifada. Ciò nonostante, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), nel 1988, riconosce tutte le risoluzioni dell’ONU, quindi anche quella del 1947, che raccomanda la ripartizione della Palestina in uno stato ebraico e in uno stato arabo. E nel 1993, l’OLP sigla gli accordi di Oslo per il riconoscimento reciproco tra Israele e Palestina e per il ritiro graduale di Israele dai Territori Occupati. Accordo disapprovato e sabotato da Hamas e dalla destra israeliana, che arriva a uccidere il primo ministro Rabin.

Quando gli Accordi di Oslo sono ormai naufragati — dopo il fallimento di Camp David (2000) e Taba (2001), il ritorno al governo del Likud con Ariel Sharon (2001) — nel giugno 2003 e nel gennaio 2004 Hamas propone la Hudna: dieci anni di tregua a Israele in cambio di un ritiro completo da tutti i territori occupati, conquistati nella Guerra dei Sei Giorni, e la creazione di uno Stato palestinese in Cisgiordania ed a Gaza. Il leader di Hamas fautore della proposta era Abd al-Aziz al-Rantissi, ucciso dall’IDF il 17 aprile 2004, in un omicidio extragiudiziario.

La Hudna viene poi recepita senza limiti temporali specificati nel nuovo Statuto di Hamas del 2017, là dove dice che «Hamas considera la creazione di uno Stato palestinese pienamente sovrano e indipendente, con Gerusalemme come capitale sulla falsariga del 4 giugno 1967, con il ritorno dei rifugiati e degli sfollati alle loro case da cui sono stati espulsi, come una formula di consenso nazionale». Il 4 giugno 1967 è il giorno precedente la Guerra dei sei giorni. Israele e molti osservatori giudicano il nuovo documento insufficiente, quindi ingannevole, per il mancato riconoscimento esplicito dello Stato d’Israele. Ma con ciò disconoscono la svolta pragmatica e la potenzialità di una evoluzione.

Dopo il nuovo Statuto del 2017, Hamas con gli altri gruppi palestinesi, nel 2018-2019, organizza la “Grande marcia del ritorno”, una manifestazione pacifica settimanale, per ricordare la Nakba e riconquistare l’attenzione internazionale sulla questione palestinese. Israele reagisce con la repressione: 200 palestinesi uccisi, 8.000 feriti.

Oggi, i palestinesi cosa vogliono? Liberare i territori occupati o tutta la Palestina dal fiume al mare? Credo vogliano innanzitutto sopravvivere, restare nel luogo in cui abitano e riguadagnare un minimo di normalità. È molto difficile che i palestinesi possano distinguere tra le due prospettive, nel momento in cui non vedono nessuna prospettiva. Perché i palestinesi della Cisgiordania devono fronteggiare gli attacchi continui dei coloni e i palestinesi di Gaza devono fronteggiare le bombe, una carestia forzata e, forse, un genocidio, come documenta la recente risoluzione dell’International Association of Genocide Scholars (IAGS).

Considerando la grande sproporzione dei rapporti di forza, è molto difficile che possa essere la volontà del più debole a sbloccare la situazione e rilanciare un processo di pace. Il punto è cosa vuole Israele. La destra al governo vuole i Territori senza i palestinesi.

Che il comportamento di una popolazione sia determinato dalle condizioni materiali di vita e dal riconoscimento dei diritti fondamentali, più che dalla religione, l’ideologia o la propaganda, è dimostrato dalla minoranza arabo-israeliana, ovvero i palestinesi con la cittadinanza israeliana. Essi non hanno mai praticato alcuna forma di resistenza armata, hanno sempre lottato per i propri diritti con mezzi legali e pacifici. È questa la prova empirica: dove si riconoscono diritti e dignità, si riduce la resistenza violenta; dove si negano, l’oppressione alimenta la reazione.

Global Sumud Flotilla: disobbedienza civile internazionale

A Genova, la ONG Music for Peace ha raccolto più di 300 tonnellate di cibo per Gaza. 45 tonnellate saranno caricate sulle navi della Global Sumud Flotilla, che cercheranno di rompere il blocco navale israeliano. 95-135 tonnellate saranno conservate a Genova fino a gennaio, nell’attesa e speranza che arrivi il permesso di entrare a Gaza. Altrimenti, saranno inviate in Sudan, altro paese afflitto dalla guerra e dalla carestia. 120-160 tonnellate saranno subito inviate in Sudan, dove Music for Peace lavora da sei anni. Dal 1994, la ONG ha gestito altre missioni nel Deserto del Saharawi, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Ucraina, Kurdistan, Iraq, Afghanistan (cfr: www.ilpost.it).

La prevedibile impossibilità di raggiungere Gaza non solo spiega la scelta di dirottare e conservare parte degli aiuti. Ma fornisce anche alle fonti filoisraeliane il pretesto per bollare l’iniziativa come “messinscena mediatica”. Inutile, perché a Gaza non c’è un porto per l’attracco del tipo di navi delle ONG. Illegale, perché la spedizione umanitaria punterebbe a forzare il blocco israeliano riconosciuto dai procedimenti internazionali. Inservibile perché se anche la Flotilla raggiungesse Gaza, non avrebbe le capacità di compensare le carenze delle Nazioni Unite e della GHF (cfr: www.setteottobre.com). La GHF, in realtà è un’organizzazione di parte creata da Israele e Stati Uniti per sostituirsi proprio agli organismi internazionali di aiuto.

È vero che Gaza non dispone di un porto adeguato. Ma questo non è un dato neutro: è il frutto diretto del blocco israeliano. I pescatori non possono uscire oltre poche miglia nautiche, i progetti di ampliamento del porto sono stati bloccati da Israele, e qualunque tentativo di costruire infrastrutture marittime è stato bombardato. Dire che la flottiglia è inutile perché non può attraccare equivale a giustificare il blocco invece di metterlo in discussione. Inoltre, le imbarcazioni della Flotilla non sono grandi cargo: sono barche di dimensioni medio-piccole, pensate per dimostrare simbolicamente che rompere l’assedio è possibile. Ed è già successo, alcune navi della Flotilla sono riuscite a raggiungere Gaza nel 2008.

Il blocco navale di Israele su Gaza — formalmente giustificato come misura di sicurezza per prevenire il traffico di armi verso Hamas — non è legittimo. Anzi è stato condannato da numerosi esperti di diritto internazionale e da organismi dell’ONU come una forma di punizione collettiva, dunque illegale ai sensi della IV Convenzione di Ginevra. Nel 2011 la missione d’inchiesta delle Nazioni Unite sul raid contro la Mavi Marmara definì “illegale” proprio l’assalto israeliano in acque internazionali. È vero che una commissione Palmer delle Nazioni Unite ha giudicato “legale” il blocco navale. Ma quella valutazione fu parziale, contestata e mai adottata dall’Assemblea generale. Oggi, con la Corte internazionale di giustizia che ha riconosciuto “plausibile” il rischio di genocidio a Gaza, insistere nel definire il blocco “legale” è troppo forzato.

La Flotilla trasporta aiuti simbolici (es. formula per bambini, farina, medicinali). Ma il suo scopo principale è politico e mediatico: denunciare il blocco degli aiuti dell’ONU, la reazione timida o assente dei governi europei, la gravità dell’assedio israeliano. Nessuno tra i promotori della Freedom Flotilla sostiene che le loro barche a vela possano sostituire il lavoro delle Nazioni Unite o coprire i bisogni umanitari di Gaza. Secondo le agenzie ONU, per coprire i soli bisogni alimentari e nutrizionali di base a Gaza servono oltre 62.000 tonnellate di aiuti alimentari ogni mese. Questo equivale a circa 2.000 tonnellate di cibo al giorno.

La funzione della Global Sumud Flotilla è politica e simbolica: mostrare al mondo che civili disarmati sono disposti a sfidare un assedio che affama oltre due milioni di persone. Sostenere che la Flotilla è inutile perché non risolve il problema equivale a dire che una manifestazione di piazza è inutile perché non cambia le leggi da sola. L’efficacia sta nella rottura del silenzio e nella denuncia dell’illegittimità del blocco.

La Global Sumud Flotilla non è una “messinscena mediatica”, ma un atto di disobbedienza civile internazionale contro un blocco che alimenta una crisi umanitaria giunta al limite — se non oltre il limite — della carestia e del genocidio. Gli aiuti che porta sono modesti, ma il loro valore simbolico e politico è enorme: ricordano al mondo che a Gaza milioni di persone sono private del necessario per vivere. Invece di liquidarla come inutile, sarebbe più onesto chiedersi perché sia necessario ricorrere a un’iniziativa così estrema per rivendicare un diritto elementare: che la popolazione civile di Gaza riceva gli aiuti fondamentali.