
Da diciassette anni i due milioni di abitanti di Gaza vivono senza poter uscire dal loro territorio, senza poter commerciare liberamente e, da oltre due anni, senza nemmeno poter navigare. Il mare, che dovrebbe essere una via d’uscita, è diventato una barriera. Per Israele, il blocco navale serve a impedire il traffico di armi verso Hamas; per molti osservatori internazionali, è una forma di punizione collettiva che viola il diritto umanitario. La discussione non riguarda solo se il blocco sia legale, ma cosa significhi considerare “legale” una politica che affama un intero popolo.
Palmer, un verdetto controverso
La base giuridica del blocco risale al 2011, quando un gruppo d’inchiesta delle Nazioni Unite – la cosiddetta commissione Palmer, istituita dopo l’assalto israeliano alla flottiglia Mavi Marmara – concluse che il blocco navale imposto da Israele era “legittimo”.
Secondo il rapporto, Israele aveva il diritto di difendersi dal lancio di razzi provenienti da Gaza e, applicando il Manuale di San Remo sul diritto della guerra marittima, poteva limitare l’accesso al mare per motivi di sicurezza. Il panel considerava inoltre che Israele non occupasse più Gaza, poiché si era ritirato dal territorio nel 2005.
Ma quella definizione di “non occupazione” è sempre stata contestata. Israele continua a controllare lo spazio aereo, i confini terrestri e le acque territoriali della Striscia. L’Egitto collabora al blocco dal lato sud, ma il controllo effettivo rimane israeliano.
Per questo, già nel 2011, il Comitato internazionale della Croce Rossa e diverse agenzie dell’ONU avevano definito il blocco una punizione collettiva vietata dall’articolo 33 della Quarta Convenzione di Ginevra. L’ONU stimava allora che il 70% della popolazione dipendesse dagli aiuti alimentari. Oggi la percentuale sfiora il 100%.
La contraddizione di fondo è che una misura nata come difensiva è diventata un sistema di controllo totale. E la distanza tra legalità formale e legittimità morale si è allargata di anno in anno.
Dopo il 7 ottobre 2023
L’attacco di Hamas contro Israele del 7 ottobre 2023 ha riaperto una fase ancora più dura dell’assedio. Pochi giorni dopo, il ministro della Difesa Yoav Gallant annunciò: “Niente elettricità, niente cibo, niente carburante”. Da allora il blocco è diventato totale, non solo navale ma anche terrestre. Israele afferma di voler impedire il ritorno al potere di Hamas, ma il risultato è stato la distruzione quasi completa della Striscia di Gaza.
A metà 2025, secondo i dati delle agenzie ONU, oltre 90% della popolazione soffre di insicurezza alimentare estrema. Il Programma alimentare mondiale parla apertamente di carestia indotta. Le epidemie si diffondono per la mancanza di acqua potabile, i sistemi sanitari sono collassati, e le poche navi che cercano di portare aiuti umanitari vengono respinte o sequestrate in mare aperto.
Per Israele il blocco resta una misura militare legittima. Ma nel diritto internazionale umanitario il principio di proporzionalità vieta di colpire la popolazione civile per raggiungere obiettivi militari.
Nel marzo 2024, una relazione del Consiglio dei diritti umani dell’ONU ha definito il blocco “una forma di persecuzione sistematica” che “contribuisce a creare le condizioni di un possibile genocidio”.
Amnesty International e Human Rights Watch hanno espresso la stessa valutazione: la fame non è più una conseguenza della guerra, ma un suo strumento deliberato.
La pesca impedita
Fino al 2007, prima del blocco, la pesca era una delle principali fonti di reddito di Gaza. Oltre diecimila pescatori garantivano quasi quattromila tonnellate di pesce all’anno.
Con l’inizio del blocco israeliano, le zone di pesca sono state ridotte progressivamente da venti a tre miglia nautiche, poi vietate del tutto dopo il 2023.
Secondo il sindacato locale, nel 2025 più del 90% dei pescherecci è distrutto o inservibile, e almeno quindici pescatori sono stati uccisi dalla marina israeliana.
Chi prova a salpare rischia di essere colpito o arrestato. Anche le imbarcazioni che trasportano aiuti vengono intercettate prima di raggiungere le acque di Gaza.
Il mare, un tempo spazio di lavoro e libertà, è diventato il simbolo dell’assedio. È la frontiera che si può guardare ma non attraversare, la promessa di un altrove irraggiungibile.
Il blocco navale, formalmente difensivo, ha finito per trasformarsi in un meccanismo di isolamento totale: nessuno entra, nessuno esce, nemmeno per pescare.
Una zona grigia giuridica
Il caso di Gaza mostra quanto fragile possa essere la linea che separa la giustificazione della sicurezza dalla punizione collettiva. Il Rapporto Palmer, che nel 2011 sembrava stabilire un equilibrio tra diritto alla difesa e tutela dei civili, oggi appare come il punto d’origine di una zona grigia giuridica in cui tutto è consentito in nome della sicurezza.
Ma il diritto internazionale nasce proprio per limitare il potere degli Stati in guerra, non per giustificarlo.
Nel lessico legale, il blocco di Gaza continua a essere “discutibile ma non illegale”. Nella realtà, è diventato la negazione stessa del diritto alla vita.
Le navi che cercano di portare aiuti vengono fermate; i pescatori vengono uccisi; il mare resta vietato.
È la dimostrazione che la legalità, da sola, non basta a salvare lo spirito della legge, e che un popolo può essere affamato anche dentro le regole.
Dal diritto del mare alla guerra navale: perché le navi dirette a Gaza vengono fermate in acque internazionali
La posizione ufficiale israeliana sulla legalità dell’intercettazione di navi dirette a Gaza si fonda sulla distinzione tra il diritto del mare in tempo di pace e quello in tempo di guerra. Secondo Israele, la Global Sumud Flotilla – il convoglio umanitario intercettato a ottobre 2025 – rientra nella seconda categoria.
Israele richiama il Manuale di San Remo (1994), che regola la condotta dei conflitti armati in mare e consente il blocco navale di un territorio nemico, purché “efficace” e notificato alla comunità internazionale. In base a questo principio, sostiene che una nave diretta a Gaza possa essere fermata anche in acque internazionali se “intende violare” il blocco, in vigore dal 2009. È la logica con cui le unità della marina israeliana hanno abbordato la Flotilla a circa 70 miglia dalla costa, ben oltre le acque territoriali.
Le organizzazioni umanitarie e la maggior parte dei giuristi contestano questa interpretazione, appellandosi alla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS, Montego Bay 1982). La Convenzione tutela la libertà di navigazione in alto mare e ammette l’abbordaggio di navi straniere solo in casi specifici – come pirateria o tratta di esseri umani – non per “intenti presunti”. Per molti esperti, il blocco israeliano viola l’articolo 87 dell’UNCLOS e costituisce una forma di punizione collettiva, vietata dall’articolo 33 della IV Convenzione di Ginevra.
La cautela europea
Nel mezzo di questa disputa legale si inserisce la cautela europea. Le fregate Alpino (italiana) e Furor (spagnola) hanno scortato la flotilla solo fino a circa 150 miglia da Gaza, poi si sono fermate. Roma e Madrid hanno parlato di “monitoraggio umanitario”, ma hanno evitato di entrare nella zona di interdizione israeliana per non rischiare incidenti con un paese alleato. È il limite della politica europea: sostenere gli aiuti umanitari, senza mettere in discussione il blocco. Lo stesso ha fatto la Turchia.
Il risultato è un mare chiuso: Israele rivendica la legalità del blocco, ma a Gaza continua a essere negato il diritto più elementare, quello alla sopravvivenza.






