Il blocco navale israeliano di Gaza

Il blocco navale israeliano di Gaza

Da diciassette anni i due milioni di abitanti di Gaza vivono senza poter uscire dal loro territorio, senza poter commerciare liberamente e, da oltre due anni, senza nemmeno poter navigare. Il mare, che dovrebbe essere una via d’uscita, è diventato una barriera. Per Israele, il blocco navale serve a impedire il traffico di armi verso Hamas; per molti osservatori internazionali, è una forma di punizione collettiva che viola il diritto umanitario. La discussione non riguarda solo se il blocco sia legale, ma cosa significhi considerare “legale” una politica che affama un intero popolo.

Palmer, un verdetto controverso

La base giuridica del blocco risale al 2011, quando un gruppo d’inchiesta delle Nazioni Unite – la cosiddetta commissione Palmer, istituita dopo l’assalto israeliano alla flottiglia Mavi Marmara – concluse che il blocco navale imposto da Israele era “legittimo”.

Secondo il rapporto, Israele aveva il diritto di difendersi dal lancio di razzi provenienti da Gaza e, applicando il Manuale di San Remo sul diritto della guerra marittima, poteva limitare l’accesso al mare per motivi di sicurezza. Il panel considerava inoltre che Israele non occupasse più Gaza, poiché si era ritirato dal territorio nel 2005.

Ma quella definizione di “non occupazione” è sempre stata contestata. Israele continua a controllare lo spazio aereo, i confini terrestri e le acque territoriali della Striscia. L’Egitto collabora al blocco dal lato sud, ma il controllo effettivo rimane israeliano.

Per questo, già nel 2011, il Comitato internazionale della Croce Rossa e diverse agenzie dell’ONU avevano definito il blocco una punizione collettiva vietata dall’articolo 33 della Quarta Convenzione di Ginevra. L’ONU stimava allora che il 70% della popolazione dipendesse dagli aiuti alimentari. Oggi la percentuale sfiora il 100%.

La contraddizione di fondo è che una misura nata come difensiva è diventata un sistema di controllo totale. E la distanza tra legalità formale e legittimità morale si è allargata di anno in anno.

Dopo il 7 ottobre 2023

L’attacco di Hamas contro Israele del 7 ottobre 2023 ha riaperto una fase ancora più dura dell’assedio. Pochi giorni dopo, il ministro della Difesa Yoav Gallant annunciò: “Niente elettricità, niente cibo, niente carburante”. Da allora il blocco è diventato totale, non solo navale ma anche terrestre. Israele afferma di voler impedire il ritorno al potere di Hamas, ma il risultato è stato la distruzione quasi completa della Striscia di Gaza.

A metà 2025, secondo i dati delle agenzie ONU, oltre 90% della popolazione soffre di insicurezza alimentare estrema. Il Programma alimentare mondiale parla apertamente di carestia indotta. Le epidemie si diffondono per la mancanza di acqua potabile, i sistemi sanitari sono collassati, e le poche navi che cercano di portare aiuti umanitari vengono respinte o sequestrate in mare aperto.

Per Israele il blocco resta una misura militare legittima. Ma nel diritto internazionale umanitario il principio di proporzionalità vieta di colpire la popolazione civile per raggiungere obiettivi militari.

Nel marzo 2024, una relazione del Consiglio dei diritti umani dell’ONU ha definito il blocco “una forma di persecuzione sistematica” che “contribuisce a creare le condizioni di un possibile genocidio”.

Amnesty International e Human Rights Watch hanno espresso la stessa valutazione: la fame non è più una conseguenza della guerra, ma un suo strumento deliberato.

La pesca impedita

Fino al 2007, prima del blocco, la pesca era una delle principali fonti di reddito di Gaza. Oltre diecimila pescatori garantivano quasi quattromila tonnellate di pesce all’anno.

Con l’inizio del blocco israeliano, le zone di pesca sono state ridotte progressivamente da venti a tre miglia nautiche, poi vietate del tutto dopo il 2023.

Secondo il sindacato locale, nel 2025 più del 90% dei pescherecci è distrutto o inservibile, e almeno quindici pescatori sono stati uccisi dalla marina israeliana.

Chi prova a salpare rischia di essere colpito o arrestato. Anche le imbarcazioni che trasportano aiuti vengono intercettate prima di raggiungere le acque di Gaza.

Il mare, un tempo spazio di lavoro e libertà, è diventato il simbolo dell’assedio. È la frontiera che si può guardare ma non attraversare, la promessa di un altrove irraggiungibile.

Il blocco navale, formalmente difensivo, ha finito per trasformarsi in un meccanismo di isolamento totale: nessuno entra, nessuno esce, nemmeno per pescare.

Una zona grigia giuridica

Il caso di Gaza mostra quanto fragile possa essere la linea che separa la giustificazione della sicurezza dalla punizione collettiva. Il Rapporto Palmer, che nel 2011 sembrava stabilire un equilibrio tra diritto alla difesa e tutela dei civili, oggi appare come il punto d’origine di una zona grigia giuridica in cui tutto è consentito in nome della sicurezza.

Ma il diritto internazionale nasce proprio per limitare il potere degli Stati in guerra, non per giustificarlo.

Nel lessico legale, il blocco di Gaza continua a essere “discutibile ma non illegale”. Nella realtà, è diventato la negazione stessa del diritto alla vita.

Le navi che cercano di portare aiuti vengono fermate; i pescatori vengono uccisi; il mare resta vietato.

È la dimostrazione che la legalità, da sola, non basta a salvare lo spirito della legge, e che un popolo può essere affamato anche dentro le regole.

Dal diritto del mare alla guerra navale: perché le navi dirette a Gaza vengono fermate in acque internazionali

La posizione ufficiale israeliana sulla legalità dell’intercettazione di navi dirette a Gaza si fonda sulla distinzione tra il diritto del mare in tempo di pace e quello in tempo di guerra. Secondo Israele, la Global Sumud Flotilla – il convoglio umanitario intercettato a ottobre 2025 – rientra nella seconda categoria.

Israele richiama il Manuale di San Remo (1994), che regola la condotta dei conflitti armati in mare e consente il blocco navale di un territorio nemico, purché “efficace” e notificato alla comunità internazionale. In base a questo principio, sostiene che una nave diretta a Gaza possa essere fermata anche in acque internazionali se “intende violare” il blocco, in vigore dal 2009. È la logica con cui le unità della marina israeliana hanno abbordato la Flotilla a circa 70 miglia dalla costa, ben oltre le acque territoriali.

Le organizzazioni umanitarie e la maggior parte dei giuristi contestano questa interpretazione, appellandosi alla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS, Montego Bay 1982). La Convenzione tutela la libertà di navigazione in alto mare e ammette l’abbordaggio di navi straniere solo in casi specifici – come pirateria o tratta di esseri umani – non per “intenti presunti”. Per molti esperti, il blocco israeliano viola l’articolo 87 dell’UNCLOS e costituisce una forma di punizione collettiva, vietata dall’articolo 33 della IV Convenzione di Ginevra.

La cautela europea

Nel mezzo di questa disputa legale si inserisce la cautela europea. Le fregate Alpino (italiana) e Furor (spagnola) hanno scortato la flotilla solo fino a circa 150 miglia da Gaza, poi si sono fermate. Roma e Madrid hanno parlato di “monitoraggio umanitario”, ma hanno evitato di entrare nella zona di interdizione israeliana per non rischiare incidenti con un paese alleato. È il limite della politica europea: sostenere gli aiuti umanitari, senza mettere in discussione il blocco. Lo stesso ha fatto la Turchia.

Il risultato è un mare chiuso: Israele rivendica la legalità del blocco, ma a Gaza continua a essere negato il diritto più elementare, quello alla sopravvivenza.

Freedom la seconda Flotilla

Freedom la seconda Flotilla

La seconda Flotilla diretta a Gaza, organizzata dalla Freedom Flotilla Coalition (FFC), ha tentato in modo coordinato di sfidare il blocco navale israeliano, per portare aiuti umanitari e dare visibilità alla crisi alimentare e sanitaria nella Striscia. È partita con obiettivi chiari: consegnare cibo, medicinali e attrezzature mediche, e documentare la catastrofe umanitaria causata da due anni di guerra e assedio totale. Ma, come la precedente, le è stato impedito di arrivare a destinazione.

Il convoglio principale, composto da una decina di imbarcazioni e circa 70 attivisti, è salpato dal porto di San Giovanni Li Cuti, a Catania (Sicilia), il 27 settembre 2025, dopo un ritardo tecnico. In totale, la Freedom Flotilla comprendeva circa 150 volontari da 25 paesi, a bordo di nove navi tra cui la Conscience, dedicata a giornalisti e operatori sanitari. L’iniziativa si è però trovata a operare in un momento di particolare saturazione mediatica: si è sovrapposta alla Global Sumud Flotilla, lanciata a fine agosto dai porti di Spagna, Italia, Grecia e Tunisia con oltre 50 barche e la partecipazione di Greta Thunberg, e ha coinciso con l’annuncio del cosiddetto “piano di pace Trump”, che ha monopolizzato la scena diplomatica.

Il risultato è stato un’azione meno visibile, ma non meno significativa.

L’intercettazione in acque internazionali

L’IDF ha intercettato la seconda flottiglia l’8 ottobre 2025, a circa 120 miglia nautiche da Gaza, in acque internazionali. Le forze israeliane hanno disturbato le comunicazioni radio, poi hanno abbordato almeno due navi del convoglio, sequestrando l’intero equipaggio e i suoi beni. Tutti gli attivisti sono stati trasferiti forzatamente verso il porto israeliano di Ashdod. L’operazione è stata descritta dagli organizzatori come un “attacco violento” e una “violazione del diritto internazionale”, in continuità con quanto avvenuto pochi giorni prima contro la Sumud.

Le nove imbarcazioni risultano tuttora sequestrate. Gli aiuti umanitari – stimati in centinaia di migliaia di dollari, tra cibo, forniture mediche e attrezzature – sono stati confiscati. In base a precedenti simili, parte del carico potrebbe essere stata redistribuita tramite canali israeliani o agenzie ONU, ma senza consegna diretta a Gaza. Il resto, secondo la FFC, è probabilmente distrutto o trattenuto.

Abusi e detenzioni

Dopo l’intercettazione, i 145 volontari – tra cui medici, infermieri, giornalisti e parlamentari – sono stati arrestati, detenuti e interrogati in Israele. Tutti erano disarmati e impegnati in attività umanitarie.

Secondo le testimonianze raccolte da Adalah – The Legal Center for Arab Minority Rights in Israel e dalla Freedom Flotilla Coalition, gli attivisti hanno subito abusi fisici e psicologici sistematici durante l’abbordaggio e la detenzione, tra l’8 e il 12 ottobre 2025.

Durante l’intercettazione, molti sono stati colpiti, strattonati per i capelli o costretti a inginocchiarsi per ore sotto il sole, con le mani legate dietro la schiena. Diversi riferiscono di essere stati insultati o umiliati, costretti a ripetere frasi di fedeltà a Israele o denigrazione dei propri paesi d’origine.

Nei centri di detenzione di Ktzi’ot e Shikma, gli abusi sono proseguiti: condizioni disumane, accesso limitato ad acqua e cibo, assenza di assistenza legale per almeno 20 persone, e interrogatori con minacce di detenzione indefinita. Alcuni attivisti – tra cui Huwaida Arraf, palestinese-americana, Zohar Chamberlain Regev, israelo-tedesca, e Omer Sharir, israeliano – hanno reagito con uno sciopero della fame.

Particolarmente grave l’episodio che coinvolge la deputata europea Mélissa Camara, di origine africana, che ha subito insulti razzisti e violenze verbali. Nove cittadini francesi, tra cui Isaline Choury, 82 anni, sono stati costretti a firmare documenti falsi ammettendo un “ingresso illegale in Israele” per evitare la detenzione prolungata.

Entro il 12 ottobre, tutti i volontari sono stati liberati senza accuse formali e deportati, principalmente verso Giordania e Turchia. Nessuno risulta oggi in stato di fermo o in condizioni critiche, ma molti hanno descritto l’esperienza come traumatica. Le ONG coinvolte parlano di violazioni dei diritti umani e del diritto marittimo internazionale, e denunciano l’impunità sistemica concessa a Israele per atti simili.

Ondata dopo ondata

Nonostante l’intercettazione e gli abusi, la Freedom Flotilla Coalition ha annunciato che le missioni continueranno. Le definisce “wave upon wave”, ondata dopo ondata, per sottolineare una strategia di persistenza nonviolenta contro il blocco di Gaza.

Dal 2008 la FFC organizza missioni navali con volontari civili. Tra il 2023 e il 2025 ha già lanciato iniziative come Break the Siege, Handala e la Sumud Flotilla, tutte intercettate, ma decisive nel mantenere viva l’attenzione internazionale. Gli attivisti ripetono che “ogni missione fallita è un successo morale”, perché riaccende la consapevolezza dell’assedio e costringe l’opinione pubblica mondiale a guardare verso Gaza.

Gli organizzatori della Sumud, alleati con la FFC, hanno promesso di “continuare a navigare finché Gaza non sarà libera”. È una determinazione che non si ferma davanti ai sequestri, alle detenzioni o ai maltrattamenti, e che oggi – dopo due flottiglie intercettate in meno di dieci giorni – appare come la forma più visibile di disobbedienza civile internazionale contro l’assedio.

Gli abusi sugli attivisti della Flotilla

Gli abusi sugli attivisti della Flotilla

Gli attivisti della Global Sumud Flotilla, un convoglio umanitario internazionale partito per rompere il blocco navale israeliano su Gaza e consegnare aiuti alla popolazione, sono stati intercettati dalle forze israeliane in acque internazionali, sequestrati e detenuti per diversi giorni in Israele prima di essere espulsi.

Le testimonianze degli abusi

Dopo il rilascio, diversi attivisti hanno denunciato trattamenti duri e umilianti da parte delle autorità israeliane: abusi fisici, privazioni e umiliazioni psicologiche.

L’attivista climatica svedese Greta Thunberg è stata rinchiusa in una cella infestata da cimici, con cibo e acqua insufficienti che hanno causato disidratazione e eruzioni cutanee sospette. È stata costretta a rimanere seduta a lungo su superfici dure, trascinata per i capelli e spinta a tenere e baciare una bandiera israeliana per scatti propagandistici.

Tra gli italiani, Cesare Tofani ha parlato di un trattamento “terribile”, con molestie da parte di esercito e polizia. Saverio Tommasi ha denunciato il rifiuto di medicine e un trattamento “come scimmie”, con scherni e umiliazioni. Paolo De Montis ha descritto ore in ginocchio su un furgone con mani legate dietro la schiena, schiaffi e minacce con cani e puntatori laser. Lorenzo D’Agostino ha segnalato furti di beni personali e denaro.

Le sorelle malesi Heliza e Hazwani Helmi hanno definito il trattamento “brutale e crudele”: tre giorni senza cibo, acqua bevuta dal water, malati ignorati.

Attivisti svizzeri e spagnoli hanno denunciato percosse, privazione del sonno, reclusione in gabbie e insulti, con giornalisti come Carlos de Barron e Nestor Prieto costretti a firmare dichiarazioni in ebraico senza traduzione né assistenza consolare. Anche attivisti australiani hanno parlato di “trattamenti degradanti”, con torsione delle braccia e offese razziste.

La risposta israeliana

Il Ministero degli Esteri israeliano ha definito le accuse “menzogne sfacciate”, sostenendo che i diritti dei detenuti siano stati pienamente rispettati e che nessuno abbia presentato reclami formali durante la detenzione.

Diversamente, il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir ha espresso orgoglio per il trattamento severo, definendo gli attivisti “sostenitori del terrorismo” che meritavano di essere trattati “come i prigionieri di Ketziot”.

La reazione dei sostenitori di Israele

Le reazioni pro-Israele sono state prevalentemente difensive e minimizzanti. Le testimonianze di abusi sono state derise o liquidate come propaganda, mentre l’attenzione è stata spostata sulla legittimità dell’intercettazione e sui presunti legami con Hamas.

In questa logica, i maltrattamenti sono percepiti come “normali” o “minimali”, una risposta proporzionata a chi “sapeva a cosa andava incontro”. È una doppia negazione: le accuse sarebbero false, ma anche vere e irrilevanti.

Una strategia che serve a preservare l’immagine di Israele, screditando le voci critiche e normalizzando l’abuso come componente della sicurezza.

Cosa dice il diritto internazionale

Il diritto internazionale non ammette deroghe simili, nemmeno in contesti di conflitto.

Le Convenzioni di Ginevra (IV, 1949) e i Protocolli aggiuntivi impongono il rispetto della dignità dei civili detenuti: accesso a cibo, acqua, cure e divieto assoluto di trattamenti degradanti.

La Convenzione contro la Tortura (1984) e il Patto sui Diritti Civili e Politici (1966) vietano anche privazioni “minime” se inflitte deliberatamente, come il cibo scarso o le celle insalubri.

L’intercettazione di navi umanitarie disarmate in acque internazionali può violare la libertà di navigazione (UNCLOS, 1982). E sebbene il Palmer Report del 2011 abbia ritenuto legale il blocco israeliano in astratto, l’uso della forza contro civili umanitari resta ingiustificato.

Organizzazioni come Amnesty International e FIDH hanno definito l’abbordaggio della Global Sumud Flotilla “illegale” e “intimidatorio”. Per l’ICRC, un’azione simile non è giustificabile dall’articolo 51 della Carta ONU se non esiste minaccia armata immediata.

Nel complesso, i trattamenti descritti configurano violazioni multiple del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani, anche se Israele le nega.

Il comportamento del governo italiano

Il governo Meloni ha mantenuto una posizione passiva e allineata con Israele, limitandosi all’assistenza consolare di base per i circa 20-30 cittadini italiani a bordo, tra cui quattro parlamentari.

Meloni ha pubblicamente definito gli attivisti “irresponsabili”. La marina italiana ha interrotto il tracciamento della Flotilla a 150 miglia da Gaza, ancora in acque internazionali. Il rimpatrio degli italiani è avvenuto grazie a un aereo turco, non su iniziativa del governo italiano, lasciando chi non poteva pagarsi il viaggio in una situazione di rischio prolungato.

È stata una gestione coerente con la linea di pieno allineamento a Israele, anche a costo di abbandonare cittadini italiani in condizioni di abuso.

La tutela dal basso

La protezione più tangibile è arrivata dalla società civile, l’equipaggio di terra.

Dalla sera di mercoledì 1° ottobre, subito dopo l’intercettazione, si sono accese proteste spontanee in molte città italiane, culminate nello sciopero generale del 3 ottobre e nella manifestazione nazionale a Roma del 4 ottobre, con oltre un milione di partecipanti.

Sindacati come CGIL, USB, CUB e SGB, insieme a movimenti pro-Palestina e opposizioni politiche, hanno costruito una rete di pressione che ha accelerato le liberazioni e amplificato il caso a livello internazionale.

Lo sciopero ha costretto il governo a reagire pubblicamente: Salvini ha denunciato la “guerra politica”, mentre Schlein e Conte hanno accusato Roma di complicità. Le conferenze stampa dei parlamentari liberati e la copertura dei media hanno trasformato la vicenda in un simbolo politico e morale, rilanciato da vignette e slogan come “I did it my wave”.

Non ha fermato l’intercettazione né avviato indagini ONU, ma ha riempito il vuoto lasciato dalle istituzioni, offrendo tutela attraverso visibilità, solidarietà e mobilitazione.

Tre dubbi retorici sulla Flotilla

Dubbi sulla Flotilla

L’Avvenire ha ospitato i “tre dubbi scomodi” di Davide Rondoni sulla Global Sumud Flotilla. Cioè, su chi – a suo dire – intenda usare il dolore altrui “per farsi bello e giusto a basso costo”. 1) Se davvero si vogliono portare aiuti umanitari, si usano canali sicuri, non un azzardo incerto. 2) Se invece si vuole provocare uno dei contendenti, si rischia di appoggiare l’altro (Hamas, Iran). 3) Vale allora la differenza tra la testimonianza umanitaria dei cristiani di Gaza, che restano accanto ai più fragili, e l’atto politico della Flotilla, che – rischiando di favorire le dittature – userebbe l’aspetto umanitario.

I tre dubbi, più che scomodi, sono retorici: tre affermazioni critiche e contrarie all’iniziativa della Flotilla.

Il primo dubbio ignora che la Global Sumud Flotilla ha tentato entrambe le strade: la consegna via mare, forzando un blocco illegale, e quella via terra, negoziando attraverso il ministero degli Esteri italiano un corridoio umanitario sicuro. Entrambi i tentativi sono falliti. Il primo perché l’IDF ha assaltato le navi ancora in acque internazionali; il secondo perché Israele ha voluto escludere dalla consegna gli alimenti più nutrienti ed energetici. Se i canali sicuri funzionassero, non ci sarebbe la carestia a Gaza. Quei canali esistono solo se chi detiene il potere li concede. Per Gaza non sono concessi: gli aiuti passano col contagocce e vengono usati come arma di guerra. Chiedere agli attivisti di usare “canali sicuri” significa, in pratica, chiedere loro di non agire affatto.

Il secondo dubbio rovescia la prospettiva della provocazione. Nel diritto, la provocazione è l’atto ingiusto che attenua la colpa di chi reagisce in stato d’ira. Ma tentare di forzare un blocco illegale per consegnare cibo e medicinali non è un atto ingiusto. Rovesciare i ruoli – chi rompe un blocco illegittimo sarebbe il provocatore, chi lo mantiene sarebbe provocato e legittimato a reagire – è lo schema con cui i regimi criminalizzano la disobbedienza civile. Valeva per i Freedom Riders negli Stati Uniti segregazionisti, vale per chi aiutava i migranti nei Balcani, vale per la Flotilla. Essere strumentalizzati è il rischio di ogni iniziativa politica. La lotta contro la guerra in Vietnam poteva favorire l’Unione Sovietica: era forse un buon motivo per rassegnarsi a quella guerra? Gli stessi dubbi di Rondoni possono risultare favorevoli a Israele o al governo Meloni, eppure lui li esprime lo stesso.

Il terzo dubbio è un falso dilemma. I cristiani di Gaza, che restano per assistere la popolazione e rifiutano l’esilio forzato, compiono certamente un atto umanitario che ha valore politico. Allo stesso modo, la Flotilla che disobbedisce a un blocco illegittimo compie un atto politico che ha valore umanitario. In un contesto di guerra e genocidio, il politico e l’umanitario si intrecciano. Chi si oppone a chi pretende di decidere della vita e della morte altrui, agisce insieme sul piano politico e su quello umanitario. Bene, dunque, i cristiani di Gaza; bene gli attivisti della Flotilla.

Questi ultimi, organizzando e conducendo una piccola flotta di barche a vela attraverso il Mediterraneo, si sono esposti fisicamente al rischio di essere uccisi, feriti, torturati, reclusi, e di perdere tutto il loro materiale. Oggi molti di loro sono prigionieri nelle carceri israeliane. Se si sono “fatti belli e giusti”, non è certo a basso costo.

A che pro? A rendere evidente l’arbitrio israeliano nelle acque internazionali e in quelle di Gaza. A mostrare come Israele eserciti il potere illegittimo di fermare con la violenza l’afflusso di aiuti di prima necessità. A obbligare le istituzioni e i governi europei a uscire dall’inerzia, a prendere posizione o ad assumersi la responsabilità della propria complicità. E infine, a mobilitare la società civile: in Italia, da mercoledì sera, le città sono attraversate da scioperi e manifestazioni.

La Flotilla e la memoria di Genova

La Flotilla e la memoria di Genova

Qualcuno ha paragonato la Global Sumud Flotilla del 2025 al movimento noglobal del 2001 con un’accusa odiosa: “oggi come allora cercano il morto”. Non contro chi uccide, ma contro chi si espone.

Al G8 di Genova Berlusconi valutò di isolare i potenti in una nave al largo del porto, ma Bush jr respinse l’idea perché sarebbe sembrata un segno di debolezza. L’idea fu poi seguita negli anni successivi, organizzando il G8 in luoghi irraggiungibili. Ma nel 2001 prevalse ancora la prova di forza: una zona rossa nel cuore della città, blindata dalle forze dell’ordine.

Con una pubblica “dichiarazione di guerra all’impero”, le tute bianche annunciarono che avrebbero cercato di violarla. Non si trattava di un atto violento, ma di un’azione simbolica, come già avvenuto in altre occasioni concordate con la polizia. L’idea aveva un senso: proporre una pratica non distruttiva a chi, giovane e arrabbiato, poteva essere tentato dalla violenza dei blocco nero.

Personalmente ero contrario. Si camminava sul filo del rasoio di fronte a un governo inaffidabile, con dentro una componente che voleva la repressione. Gianfranco Fini sedeva nella “cabina di regia” delle forze dell’ordine, che si rivelarono “mal coordinate” ma spietate.

Il movimento non voleva il morto. Una parte del governo e della sua opinione pubblica, sì. Il ministro dell’interno autorizzò a sparare. Sui giornali di destra e nei forum della prima internet si incitava all’uso delle armi.

Il 20 luglio 2001 Carlo Giuliani fu ucciso. Centinaia di manifestanti pacifici furono pestati selvaggiamente, mentre i black bloc devastavano la città indisturbati.

Non si trattò solo della gestione violenta di una immensa piazza. A bocce ferme successe altrettanto. La notte, alla scuola Diaz, pacifici manifestanti furono aggrediti nel sonno e pestati a sangue dalla polizia in quella che un poliziotto definì “una macelleria messicana”. I manifestanti arrestati furono torturati per giorni nella caserma di Bolzaneto.

Il New York Times parlò della “più grande sospensione dei diritti civili in un paese occidentale dopo la Seconda guerra mondiale”. A 24 anni di distanza, la ferita è ancora aperta.

La Flotilla si trova in una situazione paragonabile solo per un aspetto: anche oggi la controparte è inaffidabile. Netanyahu, in due anni, ha mostrato di poter oltrepassare ogni linea rossa: ha colpito civili palestinesi, giornalisti, operatori umanitari, funzionari ONU, persino stati sovrani.

Non è un’ipotesi astratta. Il 31 maggio 2010, l’IDF abbordò la Freedom Flotilla diretta a Gaza: nove attivisti furono uccisi subito, un decimo morì dopo mesi di coma.

Per questo, pur criticando le proposte di mediazione dell’Italia – che ignorano il diritto internazionale e tacciono sul blocco illegale di Gaza – non pretendo che la Flotilla vada fino in fondo. Capisco chi vuole proseguire e chi vuole ritirarsi.

Hanno già fatto molto e potranno fare ancora tanto. Qualunque scelta compiano, la mia ammirazione e solidarietà rimane intatta.

L’appello di Mattarella alla Flotilla

L'appello di Mattarella alla Flotilla

L’appello di Sergio Mattarella alla Flotilla si distingue dalle dichiarazioni di Giorgia Meloni per tono, registro e contenuti. Il presidente nomina la catastrofe umanitaria di Gaza e, così facendo, critica implicitamente Israele e riconosce il valore solidale dell’iniziativa. Si rivolge ai partecipanti con rispetto: «Mi permetto di rivolgermi con particolare intensità alle donne e agli uomini della Flotilla», scrive, chiedendo loro di accettare la mediazione del patriarcato di Gerusalemme per tutelare la propria incolumità e far giungere gli aiuti a Gaza in sicurezza. È un discorso elegante, persino opposto rispetto agli ordini e alle offese della presidente del Consiglio.

Ma resta un nodo irrisolto: come può lo Stato italiano proteggere i propri cittadini in acque internazionali e, allo stesso tempo, preservare il rapporto con un alleato che li attacca? Come può ribadire il diritto del mare e contestare un blocco illegale senza aprire un conflitto con Israele? Né le parole diplomatiche di Mattarella né quelle truculente di Meloni affrontano questo dilemma.

In modo raffinato, Mattarella sposta comunque sulla Flotilla la responsabilità di evitare lo scontro. Come ha riassunto Maria Elena Delia, portavoce della missione: «Non possiamo chiedere a Israele di non attaccarvi, chiediamo a voi di scansarvi». Il presidente avrebbe potuto premettere che Israele non può colpire cittadini italiani in acque internazionali e ricordare che il blocco di Gaza è illegale.

Nel discorso di Capodanno 2023, parlando dell’Ucraina, Mattarella disse: «La responsabilità ricade interamente su chi ha aggredito e non su chi si difende o su chi lo aiuta a difendersi». Esprimeva così il principio del rifiuto del precedente. Ora, per la libera navigazione e per la tutela del diritto umanitario, quel principio non merita di essere ribadito? Se i droni contro i nostri cittadini in mare fossero russi, lo accetteremmo?

Rivolgendosi solo alla vittima potenziale, il messaggio implicito diventa: “Voi siete l’unica parte su cui possiamo esercitare un’influenza per evitare il disastro. A voi chiediamo un passo indietro”. Il comportamento di Israele, invece, è trattato come un dato di natura: la sua “prevedibile reazione violenta” viene normalizzata e accettata come un confine invalicabile dell’azione politica.

Colpisce l’assenza di un richiamo al diritto internazionale, in particolare all’illegittimità degli attacchi in acque internazionali. È una mancanza grave dal punto di vista della tutela dei cittadini. Anche volendo evitare uno strappo con Israele e Stati Uniti, non può essere solo l’Italia a farsi carico della salvaguardia dell’alleanza: se siamo alleati e non subalterni, l’onere deve essere condiviso.

Il presidente offre alla Flotilla una corona d’alloro morale in cambio del suo ritiro dalla linea del fuoco: una via d’uscita onorevole, ma al prezzo di accettare che la legge del più forte prevalga sul diritto internazionale. Quanto alla mediazione, va ricordato che il patriarcato di Gerusalemme può impegnarsi a consegnare gli aiuti ma non garantirne l’ingresso, perché Israele blocca gran parte dei carichi ai valichi.

Al porto di Genova: dieci container con 300 tonnellate di cibo raccolto da Music for Peace restano bloccati da settimane. Perché? Israele e i suoi intermediari hanno chiesto che venissero tolti dai pacchi biscotti, miele, marmellate e altri alimenti ad alto valore energetico, imponendo anche ai volontari di pagare lo smaltimento e il trasporto aggiuntivo. Condizioni «irricevibili», come le ha definite la ong, che ha preferito bloccare la trattativa piuttosto che accettare di trasformarsi in complice di un meccanismo che affama Gaza.

Non è un episodio isolato: i divieti sui datteri perché considerati “cibo di lusso” o sulle patate perché “si conservano troppo a lungo” mostrano come Israele stia usando la fame in modo deliberato, burocratico, scientifico. E se l’Europa e l’Italia accettano queste regole, pur di far arrivare qualche briciola, finiscono per legittimare l’arma più crudele. In queste condizioni, la mediazione meglio intenzionata rischia di ridursi a un inganno per l’opinione pubblica.

Droni e Meloni contro la Flotilla

Il 24 settembre 2025, undici imbarcazioni della Global Sumud Flotilla, incluse alcune battenti bandiera italiana, sono state attaccate in acque internazionali a sud di Creta. Si tratta del terzo attacco dall’inizio della missione umanitaria diretta a Gaza. Gli organizzatori hanno accusato Israele di aver utilizzato droni, sostanze chimiche non identificate e sistemi di disturbo delle comunicazioni radio.

Di fronte all’episodio, le reazioni sono state divergenti: l’Alto commissariato ONU per i diritti umani ha chiesto un’indagine indipendente, e il ministro della Difesa Guido Crosetto ha ordinato alla fregata italiana Fasan di prestare assistenza, seguito da misure simili della Spagna. Tuttavia, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha definito l’iniziativa della Flotilla “pericolosa e irresponsabile, finalizzata a creare problemi al governo”, e ha esortato gli attivisti a consegnare gli aiuti a Cipro per una distribuzione mediata dal patriarcato latino di Gerusalemme.

Il dilemma del governo italiano è evidente: da un lato, il dovere di proteggere i propri cittadini (tra cui anche parlamentari); dall’altro, la scelta strategica dell’allineamento con USA e Israele. La dichiarazione di Meloni tenta di risolvere questa tensione spostando la responsabilità sugli attivisti stessi: il messaggio implicito è che, mettendosi volontariamente in pericolo, le conseguenze siano principalmente una loro responsabilità.

Tuttavia, le parole ostili della presidente del consiglio non sono solo una presa di distanza. Esse aumentano il pericolo per la Flotilla. L’ attacco verbale di Meloni da New York, dopo l’ attacco armato dei droni in acque internazionali, delegittima l’azione umanitaria e legittima le azioni israeliane. Il segnale trasmesso è duplice: a Israele e USA assicura la continuità dell’allineamento; alla Flotilla, che non può contare sulla protezione dello Stato italiano.

La domanda retorica di Meloni – “Dobbiamo dichiarare guerra a Israele?” – è una strategia comunicativa che polarizza il dibattito tra due estremi. Questa reductio ad absurdum elimina tutte le sfumature della diplomazia (proteste formali, azioni legali, pressioni multilaterali) e nasconde la vera questione: come tutelare i cittadini attaccati da un alleato senza minare il rapporto strategico? Sostituendo una domanda difficile con una assurda, il governo evita di affrontare il problema nel merito.

Anche la mediazione italiana proposta (Cipro-Ashdod-Gaza) è rivelatrice. Il suo rigetto da parte della Flotilla è stato letto da Israele come una prova della “natura provocatoria” della missione. In realtà, la proposta ignora la radice del problema: la carestia forzata a Gaza è causata proprio dal blocco israeliano, già definito illegale da numerosi giuristi e condannato dal Consiglio ONU per i diritti umani dopo l’attacco alla Mavi Marmara del 2010, che questa mediazione avrebbe implicitamente riconosciuto come legittimo. Accettare significherebbe vanificare lo scopo politico della Flotilla: denunciare il blocco israeliano e l’immobilismo internazionale.

Global Sumud Flotilla: disobbedienza civile internazionale

A Genova, la ONG Music for Peace ha raccolto più di 300 tonnellate di cibo per Gaza. 45 tonnellate saranno caricate sulle navi della Global Sumud Flotilla, che cercheranno di rompere il blocco navale israeliano. 95-135 tonnellate saranno conservate a Genova fino a gennaio, nell’attesa e speranza che arrivi il permesso di entrare a Gaza. Altrimenti, saranno inviate in Sudan, altro paese afflitto dalla guerra e dalla carestia. 120-160 tonnellate saranno subito inviate in Sudan, dove Music for Peace lavora da sei anni. Dal 1994, la ONG ha gestito altre missioni nel Deserto del Saharawi, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Ucraina, Kurdistan, Iraq, Afghanistan (cfr: www.ilpost.it).

La prevedibile impossibilità di raggiungere Gaza non solo spiega la scelta di dirottare e conservare parte degli aiuti. Ma fornisce anche alle fonti filoisraeliane il pretesto per bollare l’iniziativa come “messinscena mediatica”. Inutile, perché a Gaza non c’è un porto per l’attracco del tipo di navi delle ONG. Illegale, perché la spedizione umanitaria punterebbe a forzare il blocco israeliano riconosciuto dai procedimenti internazionali. Inservibile perché se anche la Flotilla raggiungesse Gaza, non avrebbe le capacità di compensare le carenze delle Nazioni Unite e della GHF (cfr: www.setteottobre.com). La GHF, in realtà è un’organizzazione di parte creata da Israele e Stati Uniti per sostituirsi proprio agli organismi internazionali di aiuto.

È vero che Gaza non dispone di un porto adeguato. Ma questo non è un dato neutro: è il frutto diretto del blocco israeliano. I pescatori non possono uscire oltre poche miglia nautiche, i progetti di ampliamento del porto sono stati bloccati da Israele, e qualunque tentativo di costruire infrastrutture marittime è stato bombardato. Dire che la flottiglia è inutile perché non può attraccare equivale a giustificare il blocco invece di metterlo in discussione. Inoltre, le imbarcazioni della Flotilla non sono grandi cargo: sono barche di dimensioni medio-piccole, pensate per dimostrare simbolicamente che rompere l’assedio è possibile. Ed è già successo, alcune navi della Flotilla sono riuscite a raggiungere Gaza nel 2008.

Il blocco navale di Israele su Gaza — formalmente giustificato come misura di sicurezza per prevenire il traffico di armi verso Hamas — non è legittimo. Anzi è stato condannato da numerosi esperti di diritto internazionale e da organismi dell’ONU come una forma di punizione collettiva, dunque illegale ai sensi della IV Convenzione di Ginevra. Nel 2011 la missione d’inchiesta delle Nazioni Unite sul raid contro la Mavi Marmara definì “illegale” proprio l’assalto israeliano in acque internazionali. È vero che una commissione Palmer delle Nazioni Unite ha giudicato “legale” il blocco navale. Ma quella valutazione fu parziale, contestata e mai adottata dall’Assemblea generale. Oggi, con la Corte internazionale di giustizia che ha riconosciuto “plausibile” il rischio di genocidio a Gaza, insistere nel definire il blocco “legale” è troppo forzato.

La Flotilla trasporta aiuti simbolici (es. formula per bambini, farina, medicinali). Ma il suo scopo principale è politico e mediatico: denunciare il blocco degli aiuti dell’ONU, la reazione timida o assente dei governi europei, la gravità dell’assedio israeliano. Nessuno tra i promotori della Freedom Flotilla sostiene che le loro barche a vela possano sostituire il lavoro delle Nazioni Unite o coprire i bisogni umanitari di Gaza. Secondo le agenzie ONU, per coprire i soli bisogni alimentari e nutrizionali di base a Gaza servono oltre 62.000 tonnellate di aiuti alimentari ogni mese. Questo equivale a circa 2.000 tonnellate di cibo al giorno.

La funzione della Global Sumud Flotilla è politica e simbolica: mostrare al mondo che civili disarmati sono disposti a sfidare un assedio che affama oltre due milioni di persone. Sostenere che la Flotilla è inutile perché non risolve il problema equivale a dire che una manifestazione di piazza è inutile perché non cambia le leggi da sola. L’efficacia sta nella rottura del silenzio e nella denuncia dell’illegittimità del blocco.

La Global Sumud Flotilla non è una “messinscena mediatica”, ma un atto di disobbedienza civile internazionale contro un blocco che alimenta una crisi umanitaria giunta al limite — se non oltre il limite — della carestia e del genocidio. Gli aiuti che porta sono modesti, ma il loro valore simbolico e politico è enorme: ricordano al mondo che a Gaza milioni di persone sono private del necessario per vivere. Invece di liquidarla come inutile, sarebbe più onesto chiedersi perché sia necessario ricorrere a un’iniziativa così estrema per rivendicare un diritto elementare: che la popolazione civile di Gaza riceva gli aiuti fondamentali.