Gerard Butler e Gal Gadot: esclusione dubbia

Voler escludere Gerard Butler e Gal Gadot dalla Biennale del Cinema di Venezia è un intento molto discutibile. Un principio dovrebbe guidare: un artista va escluso solo se usa la propria immagine per fare propaganda a una causa immorale. Non per quello che rappresenta, ma per quello che fa.

Butler viene accusato di aver partecipato a una raccolta fondi per l’esercito israeliano nel 2018. Un episodio isolato, avvenuto sette anni fa, da allora non risulta abbia preso altre posizioni pubbliche.

Gadot è criticata per la sua identità israeliana e per il passato nell’Idf. Ma non ha mai sostenuto Netanyahu: nel 2019 si oppose allo stato esclusivamente ebraico, chiedendo uguaglianza tra cittadini ebrei e arabi. Dopo il 7 ottobre ha condannato Hamas e sostenuto Israele, ma soprattutto ha sostenuto i familiari degli ostaggi e il loro movimento.

Non basta per giustificare un’esclusione. La Mostra del Cinema non è un tribunale etico-politico. Alle istituzioni culturali compete favorire l’incontro, il dialogo, la riflessione. Meglio valorizzare i film palestinesi in concorso, come The Voice of Hind Rajab di Kaouther Ben Hania, che racconta la morte di una bambina a Gaza, o opere israeliane che riflettono sul trauma della guerra.

Discutere sì, contestare sì. Ma escludere d’autorità apre un precedente pericoloso, come già accaduto con gli artisti russi, e sposta l’attenzione dalle vittime alla censura, dall’ingiustizia subita a un sospetto di discriminazione.

Se, come dice il regista Massimo D’Anolfi, «il tema non sono gli inviti, ma i bambini che muoiono», la strada giusta non è silenziare i veri o presunti sostenitori di Israele, ma amplificare le voci di chi oggi è massacrato, affamato e vive tra le macerie: i palestinesi.

L’amore non garantisce il rispetto

L'amore non garantisce il rispetto

A Salerno, un uomo ha strangolato una donna. Ha scritto ai genitori di aver fatto una “cavolata”. In un gruppo pubblico di Facebook, trentaduemila uomini hanno scambiato tra loro le foto intime di mogli e fidanzate. Al Policlinico Umberto I di Roma, di fronte ai colleghi, un operatore sanitario ha detto alla paziente in attesa di fare la tac: “Se vuoi togliere il reggiseno ci fai felici tutti”.

Per un certo senso comune maschile, il primo caso è un delitto inaccettabile, e la lotta contro la violenza dovrebbe concentrarsi contro questi atti assassini. Il caso dei mariti guardoni è uno scandalo, quando viene scoperto, che merita un severo rimprovero, ma forse non la denuncia o la separazione, perché “in fondo è solo un gioco, una finzione”. Il caso della frase sul reggiseno, pare una battuta innocua: protestare e farlo in pubblico è una reazione esagerata e pesante.

La gerarchia della gravità è corretta. Ma separare nettamente un caso dall’altro, senza riconoscere il minimo denominatore comune, finisce per disperdere le energie invece di concentrarle su qualcosa di preciso. Quel denominatore è la violenza sessista, dall’annientamento, all’oggettivazione, allo svilimento, con i suoi ingredienti: il senso proprietario, la cultura dello stupro, l’abuso di potere. Nell’insieme, la concezione della donna come cosa: che si può distruggere, scambiare, strapazzare. Non ci sarebbero il femminicidio, nella dimensione in cui esiste, con il vasto contorno di maltrattamento, se non poggiasse su una base culturale che svaluta la vita delle donne, tanto da ridurre l’atto di ucciderla a una “cavolata”. Espressione che ricorre, non di rado, nelle parole degli autori.

Questa base culturale si esprime ogni giorno in violenze e molestie di grado diverso. Reagire a una battuta può sembrare sproporzionato se si guarda al singolo episodio. Ma ogni episodio è la goccia che cade in un vaso già colmo e traboccante. La “pesantezza” di quel vaso non è l’esagerazione delle donne: è la pervasiva e persistente esagerazione dei maschi, la realtà accumulata di una violenza quotidiana.

Molti uomini ribattono: “Ma io amo le donne”. Persino chi è violento, molesto o guardone spesso dichiara di amare. E c’è discussione e contestazione sulla verità di questo amore. Comunque sia, l’amore non garantisce il rispetto. L’amore, da solo, non obbliga a trattare con cura, la cura la si vive come un dono, una concessione, che si può revocare e persino invertire quando l’oggetto amato non soddisfa più o addirittura si ribella. Io amo la mia bicicletta e la tratto bene, ma chissà come la tratterei se si rifiutasse di trasportarmi.

Il punto decisivo non è l’amore, ma il rispetto interiorizzato. Quella barriera che ti impedisce di violare l’altra persona perché non potresti sfuggire alla tua stessa sanzione interiore. Per arrivarci servono l’educazione dei maschi al rispetto, alla parità, alla valorizzazione delle differenze. Ma soprattutto serve che cresca il potere e il prestigio sociale delle donne: proprio ciò a cui molti uomini resistono, anche con il femminicidio, la violenza e le molestie.

Neonati morti di freddo a Gaza: realtà, non propaganda

Tra il 26 dicembre 2024 e il 7 gennaio 2025 almeno otto neonati sono morti per ipotermia a Gaza. Lo ha denunciato l’Unicef, confermato da medici locali e da organizzazioni come OMS, Médecins Sans Frontières e Islamic Relief. Eppure, la notizia è stata accolta da molti commentatori filo-israeliani come l’ennesima “fake news di Hamas”: come possono morire dei bambini di freddo se le temperature, quell’inverno, sono state relativamente miti?

In effetti, tra fine dicembre e inizio gennaio le temperature diurne a Gaza hanno oscillato tra i 15 e i 19°C, quelle notturne tra i 10 e i 15°C. Valori che, presi in astratto, non sembrano mortali. Ma il contesto reale va considerato: Gaza è una zona costiera con livelli di umidità molto alti (65–70%) e venti costanti che amplificano la percezione del freddo. La sensazione termica può scendere di diversi gradi, soprattutto di notte. Se a questo si aggiungono tende fradice di pioggia e abitazioni sventrate, il quadro cambia radicalmente.

I neonati sono i più esposti a queste condizioni. Il loro sistema di termoregolazione è immaturo: non riescono a mantenere una temperatura corporea stabile in ambienti freddi senza protezione. I piccoli nati prematuri o sottopeso – numerosissimi a Gaza, dove la malnutrizione colpisce donne incinte e neonati – sono ancora più vulnerabili. La carenza di cibo riduce la capacità del corpo di generare calore, e l’assenza di incubatrici o assistenza adeguata rende impossibile trattare i casi di ipotermia. In ospedali come il Kamal Adwan e l’Al-Aqsa, spesso sotto attacco o privi di elettricità, medici come Wisam Shaltout e Saeed Salah hanno visto arrivare neonati con temperature corporee sotto i 34°C, già in stato critico. Molti non sopravvivono nonostante i tentativi di rianimazione.

La responsabilità di queste morti non è il clima, ma il contesto disumano in cui i bambini sono costretti a nascere e crescere. Oltre 1,9 milioni di persone – il 90% della popolazione – sono sfollate, vivono in tende fragili e non hanno accesso a coperte, stufe o carburante. A dicembre 2024 sono entrati a Gaza appena 160 camion di aiuti per ripari: prima del conflitto erano 500 al giorno. Per riscaldarsi, molte famiglie bruciano plastica o legna raccolta tra le macerie, con effetti minimi e pericolosi per la salute.

Di fronte a questo quadro, l’accusa di “fake news” non regge. Certo, in passato ci sono stati episodi di disinformazione – come l’articolo del Jerusalem Post del dicembre 2023 che scambiò per bambola un bambino morto – ma in questo caso i dati sono confermati da più fonti indipendenti e da testimonianze mediche dirette. Negare le morti per ipotermia serve soltanto a rimuovere la responsabilità politica di un assedio che priva la popolazione civile, e in particolare i neonati, delle condizioni minime di sopravvivenza.

Non è il termometro a spiegare perché si muore di freddo a Gaza. Sono le macerie, le tende bagnate, la fame e l’assedio.

Perché discuto con i filoisraeliani

Mi viene chiesto, e non da oggi, perché discuto con i filoisraeliani, con i sionisti, con i negazionisti. Perfino ora che a Gaza è in corso un massacro, forse un genocidio. La domanda pare un complimento: “che pazienza, sembri un santo”. Ma ci sento dentro una nota di rimprovero: “non dovresti parlare con loro”, “non dovresti legittimarli”.

Provo a rispondere così.

Anzitutto, credo che il mio modo di relazionarmi agli altri debba essere coerente con ciò che penso. Se voglio la pace, la convivenza e la giustizia, il mio comportamento deve essere pacifico, tollerante e giusto. Non mi convince chi lotta contro la guerra con toni bellicosi, perché manda un messaggio divergente. Allo stesso modo, se mi oppongo alla cancellazione dei palestinesi, non posso comportarmi come se volessi cancellare i sostenitori di Israele: sarebbe una contraddizione.

C’è poi un altro punto. Le persone che hanno uno spirito militante tendono a simboleggiare: vedono nell’interlocutore il rappresentante di una ideologia, un partito, un sistema, uno stato. Così il filoisraeliano diventa Israele, il filopalestinese diventa Hamas. Rifiuto questa logica. Anche se il mio interlocutore si presenta come “voce di Israele”, io lo considero una persona, non uno Stato. Lo stesso chiedo per me: non sono il portavoce di un gruppo, ma un individuo con le sue idee.

Infine, c’è una ragione più pratica. Le persone imparano meglio per opposizione. Se scrivo un testo con la mia versione della realtà, ha un certo impatto. Ma se mi misuro in un contraddittorio, l’effetto è maggiore: chi legge vede se certi argomenti reggono oppure no alla prova dei fatti e della logica, trova contro-argomentazioni da usare, si orienta meglio. Il dialogo non serve a convincere chi mi sta di fronte, ma a dare strumenti a chi osserva la discussione.

Per questo continuo a discutere. Non è indulgenza, né è neutralità. Vuole essere coerenza e rispetto per la dignità delle persone come individui, un modo per confutare le bugie o le cattive argomentazioni nel momento stesso in cui vengono pronunciate. Discutere, per me, non significa concedere: significa resistere in modo pacifico e coerente.

L’83% delle vittime a Gaza sono civili

L’83% delle vittime a Gaza sono civili

Secondo un’inchiesta del Guardian, basata su un database classificato dell’esercito israeliano, a maggio 2025 il bilancio della guerra a Gaza era di 53.000 morti, di cui appena 8.900 combattenti di Hamas o della Jihad islamica. Significa che l’83% delle vittime erano civili.

Un rapporto così sbilanciato è eccezionalmente raro nelle guerre moderne. Therése Pettersson, ricercatrice dell’Uppsala Conflict Data Program, osserva che percentuali simili si trovano solo in episodi estremi come Srebrenica, il genocidio in Rwanda o l’assedio russo di Mariupol. Nemmeno le guerre civili siriana e sudanese, note per le uccisioni indiscriminate, hanno prodotto una quota di civili tanto alta per un periodo così lungo.

Tra i ‘soli episodi’ c’è l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, che uccise 1.195 persone di cui 828 civili (il 68,2%), una delle aggressioni più cruente contro civili in tempi recenti. Ma a Gaza quella percentuale è stata superata e stabilizzata su scala di massa.

Alcuni sostenitori del governo israeliano paragonano la guerra a Gaza a una “guerra totale” come la seconda guerra mondiale. Eppure, alla fine di quel conflitto, la percentuale di vittime civili era molto più bassa: 32% in Germania, 34% in Italia, 17% in Giappone.

Non smettere di parlare con la Russia

Non smettere di parlare con la Russia.

Smettere di parlare con la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina non mi è mai parsa una buona idea. Perché mettere fine alla guerra in atto e scongiurare una guerra più grande implica parlarsi e continuare a farlo anche quando sembra inutile.

Prendiamo Hamas. Un gruppo da noi considerato terrorista, fondamentalista, fanatico, intriso di odio e volontà distruttive e autodistruttive. Ebbene, questo gruppo è sempre in trattative con Israele. Nonostante Gaza sia sotto assedio, sotto occupazione, bombardata e affamata, distrutta in tutte le sue infrastrutture. Nonostante le uccisioni dei leader e dei negoziatori del gruppo, Hamas continua a trattare, anche quando la trattativa pare essere solo una copertura, anche dopo che Israele viola le tregue.

Se lo fa Hamas con Israele, perché non può farlo l’Ucraina con la Russia? E l’Europa e gli Usa insieme con l’Ucraina? Qui, mi riferisco agli Usa di Biden, perché gli Usa di Trump non so bene da che parte stiano.

Quando il tycoon fu rieletto alla Casa bianca – un evento catastrofico – almeno sotto questo aspetto mi parve buono. Gli Usa sarebbero tornati a parlare con la Russia. Così forse la guerra in Ucraina sarebbe finita. Invece, con Trump di nuovo presidente, la guerra in Ucraina è diventata soltanto più cruenta. Il punto è che Trump e Putin non sono due nemici che fanno la pace. Sembrano piuttosto due amici che fanno affari, spesso sulla pelle degli altri.

Quindi, il quadro è diventato ancora più sfavorevole. Ma penso lo stesso che l’Europa e l’Ucraina dovrebbero maturare una vocazione diplomatica e non limitarsi a predicare e praticare una resistenza che non si capisce quali esiti possa avere, se non una guerra continentale con la Russia.

Ciò detto, la pratica del dialogo deve tener conto dei principi giuridici. Perché una condizione della pace e della convivenza nel mondo è l’esistenza di un diritto internazionale. Che oggi sembra non valere più nulla. Perciò bisogna valorizzarlo.

La non adesione dell’Ucraina alla Nato è una cosa che si può concedere. L’acquisizione di territori con la forza invece no. Canali diplomatici formali ed informali si possono attivare e mantenere, anche con la mediazione di paesi terzi. Legittimare un leader ricercato internazionale dalla CPI per crimini di guerra, invece non lo si può fare. E non importa che non sia isolato nel resto del mondo, fuori dall’Europa.

Il resto del mondo non ci crede e non ci dà retta, perché non siamo coerenti. Anche questo va corretto, per una efficace diplomazia del vecchio continente. L’Europa dovrebbe avere lo stesso linguaggio e la stessa intraprendenza quando parla di Ucraina e quando parla di Gaza.

Non esiste una violenza femminile speculare alla violenza maschile

Non esiste una violenza femminile uguale e speculare alla violenza maschile, pur se di dimensioni più piccole.

A proposito degli sportelli per “uomini maltrattati” ho provato ad argomentare – insieme a molte altre e alcuni altri – che non esiste una violenza femminile uguale e speculare alla violenza maschile, pur se di dimensioni più piccole, come le donne sono più piccole degli uomini.

Ma esiste solo una somma di casi individuali – neppure tanto frequenti – che, messi insieme, non fanno un sistema culturale e di relazioni di potere.

Non esiste infatti, nessuna società, ideologia, religione, cultura, che insegni alle donne a dominare gli uomini, a fondare la propria identità su un tale dominio e a correggere con la violenza gli uomini ribelli.

La prova evidente è che non esiste una violenza simbolica femminile sugli uomini, mentre esistono infinite manifestazioni di violenza simbolica maschile sulle donne.

L’ultima la potete leggere sulla pagina fb della giornalista Rita Rapisardi che racconta di un gruppo pubblico su Facebook, intitolato “Mia moglie” con 32 mila iscritti, nel quale tanti uomini espongono al commento dei loro simili le foto delle proprie mogli, fidanzate, amiche, senza il loro consenso. In sostanza, un revenge porn di massa, tollerato dalla nostra piattaforma.

Qualcosa di uguale e contrario al femminile è impossibile trovarlo.

Lo sciopero generale israeliano

Lo sciopero generale israeliano. La piazza di Tel Aviv

Il post di Lorenzo Tosa sullo sciopero generale israeliano ha una linea chiara e, secondo me, coglie un punto reale: la grande mobilitazione in Israele non nasce da empatia per i palestinesi, ma dal dolore e dalla pressione delle famiglie degli ostaggi. La manifestazione di Tel Aviv è stata centrata sullo slogan “Riportateli tutti indietro”, e questo dato oggettivo va riconosciuto.

Ma, Tosa semplifica il senso della piazza. È vero che non era una manifestazione per Gaza, ma dentro quella moltitudine c’erano anche persone e gruppi critici verso la guerra in quanto tale, capaci anche di pronunciare la parola “genocidio” o che vedono la liberazione degli ostaggi legata al cessate il fuoco. Non è stata una piazza “per i palestinesi”, ma non stata neanche impermeabile a un discorso di solidarietà e di soccorso ai palestinesi.

Anche se motivata da ragioni “nazionali”, la protesta indebolisce Netanyahu e spinge verso un cambio di linea politica. In questo senso, può avere un effetto indiretto anche sulla fine della guerra, pur non nascendo da una solidarietà diretta verso i palestinesi.

Il post sembra quasi voler “raffreddare” chi, in buona fede, aveva letto la protesta come una mobilitazione per Gaza. È una precisazione giusta, ma rischia di scivolare nel disincanto totale: il messaggio implicito è che non ci si può aspettare nulla da Israele sul piano della coscienza morale collettiva. Questo può portare a un fatalismo che non riconosce sfumature e processi interni.

Non possiamo esser certi che “se tutti gli ostaggi fossero tornati a casa, anche di fronte a 60.000 morti palestinesi e il quintuplo torturati dalla fame, in quella piazza non ci sarebbe stato che qualche migliaia di persone, forse neanche quelli”.

Se tutti gli ostaggi fossero tornati a casa, forse in Israele ci sarebbe più spazio per l’empatia e la guerra avrebbe più difficoltà a trovare una giustificazione.

Tosa ha ragione a dire che quella piazza non era per Gaza. Però sottovaluta che, anche se il motore principale è “egoistico” (gli ostaggi), questa mobilitazione può aprire crepe nella narrazione dominante e spingere a soluzioni favorevoli anche alla sorte dei palestinesi.

Campi rom: la realtà oltre le semplificazioni

Foto - Samuel Percy, scena rustica con accampamento nomadi

Filippo Facci, in un recente articolo, sostiene che “ai genitori dei campi rom andrebbero tolti i figli” e che “Bruxelles” ci vieta di sgomberare le baraccopoli.

Facciamo chiarezza.

📌 Chi decide cosa – Non è Bruxelles. È il Comitato Europeo dei Diritti Sociali del Consiglio d’Europa, a Strasburgo. Non vieta gli sgomberi: chiede solo che ci siano alternative abitative dignitose e non segreganti.

📌 Perché molti rom vivono nei campi – Non “per scelta” del 97%, come scrive Facci. Dati recenti (UNAR, Ass. 21 Luglio, FRA) parlano di discriminazione abitativa, affitti negati, barriere burocratiche e povertà strutturale.

📌 Scuola e minori – L’abbandono scolastico è alto, ma le cause sono complesse: precarietà, distanza, discriminazione. Non è solo una scelta dei genitori.

📌 Criminalità e stereotipi – Sfruttamento minorile e illegalità esistono in casi documentati, ma non rappresentano tutta la comunità. Generalizzare equivale a diffondere pregiudizi.

📌 Discriminazione – Facci la cita come marginale, ma le ricerche internazionali la indicano come fattore decisivo di esclusione.

📌 Soluzioni – La rimozione forzata dei bambini è una misura estrema prevista solo in casi gravissimi. Gli standard internazionali puntano prima su sostegno familiare e inclusione.

Conclusione: i problemi nei campi rom sono reali e gravi. Ma piegare i dati a una tesi che colpevolizza un intero gruppo etnico non li risolve. Servono politiche basate su fatti completi, non su semplificazioni.

(Foto – Samuel Percy, scena rustica con accampamento nomadi)

L’assassinio di Anas Al-Sharif

L’assassinio di Anas Al-Sharif

Sull’assassinio di Anas Al-Sharif, molti sostenitori di Israele hanno riciclato le consuete carte dell’IDF: il giornalista sarebbe un terrorista di Hamas sotto copertura. Peccato che le ‘prove’ – documenti finanziari opachi, video granulosi, post decontestualizzati – siano inverificabili e, sul piano logico, poco credibili: perché mai Hamas dovrebbe usare giornalisti come copertura in un territorio che già controlla? A Gaza, i reporter non ‘coprono’ nulla, sono anzi tra le categorie più prese di mira. E anche se fosse, un agente sotto copertura non diventerebbe certo una star dei social e il volto più noto di Al Jazeera.

C’è però un difensore di Israele, Andrew Fox, che va oltre le giustificazioni convenzionali: per lui, Al-Sharif era un bersaglio legittimo non (solo) per presunti legami con Hamas, ma perché giornalista di un network che ‘combatte’ la guerra dell’informazione. Gaza, insomma, si conquista anche a colpi di hashtag e dirette TV. Una tesi che equipara il giornalismo alla guerra asimmetrica, autorizzando di fatto l’omicidio di chiunque influenzi l’opinione pubblica. Se fosse coerente, Fox dovrebbe accettare che anche la sua retorica – volta a manipolare il dibattito – lo renda un ‘bersaglio’. Ma il punto è questo: se ogni reporter scomodo può essere bollato come ‘combattente’, la libertà di stampa è già morta.