Francesca Albanese e Liliana Segre

Francesca Albanese e Liliana Segre

Sul genocidio di Gaza, la differenza sostanziale tra Francesca Albanese e Liliana Segre consiste in questo.

Francesca Albanese si misura con la definizione giuridica di genocidio. Quella stabilita il 9 dicembre 1948 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nella Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, redatta con il contributo di Raphael Lemkin.

L’articolo II della Convenzione definisce il genocidio come uno dei seguenti atti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso:

(a) uccisione di membri del gruppo;
(b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo;
(c) il sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocarne la distruzione fisica totale o parziale;
(d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo;
(e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro.

Sulla base di questa definizione, è possibile chiedersi quale di questi atti non rientri nelle azioni militari israeliane a Gaza. I negatori del genocidio, infatti, non contestano i fatti, ma l’“intenzione”: è su questo punto che concentrano le loro argomentazioni.

Liliana Segre, testimone della Shoah e senatrice a vita, pur riconoscendo la gravità dell’offensiva israeliana – che definisce in termini di crimini di guerra e crimini contro l’umanità – rifiuta il termine genocidio, perché fa riferimento a una definizione più estrema e personale del concetto.

Secondo Segre, i due elementi essenziali del genocidio sono:

  • la pianificazione dell’eliminazione totale, almeno nelle intenzioni, di un gruppo etnico o sociale;
  • l’assenza di un rapporto funzionale con una guerra: il genocidio non è un effetto collaterale di un conflitto, ma un fine in sé.

Chi ha ragione? Sul piano giuridico, Francesca Albanese: la Corte internazionale di giustizia si fonda sulla definizione dell’ONU.
Sul piano politico e storico, però, ogni definizione resta legittima. Liliana Segre può sostenere la sua, che identifica il genocidio con la Shoah — di cui è testimone diretta —, anche se non può essere considerata un’autorità assoluta nel decidere cosa sia o non sia un genocidio.

Agli eredi politici delle leggi razziali e dei repubblichini di Salò — oggi pronti a strumentalizzare Liliana Segre per negare il genocidio di Gaza — va ricordato che la senatrice, nella sua intervista a Repubblica del 2 agosto 2025, ha dichiarato:

“Quando si affama una popolazione il rischio di arrivare all’indicibile esiste. Vederlo fare da Israele è straziante.”

E già nel colloquio con il Corriere della Sera del 5 maggio 2025 aveva aggiunto:

“Trovo mostruoso il fanatismo teocratico e sanguinario di Hamas (…). Ma sento anche una profonda repulsione verso il governo di Benjamin Netanyahu e verso la destra estremista, iper-nazionalista e con componenti fascistoidi e razziste al potere oggi in Israele (…). La guerra a Gaza ha avuto connotati di ferocia inaccettabili e non è stata condotta secondo i principi umanitari e di rispetto del diritto internazionale che dovrebbero guidare Israele.”

L’ONU certifica il genocidio a Gaza

L’ONU certifica il genocidio a Gaza

La Commissione indipendente di inchiesta dell’ONU sui Territori palestinesi occupati ha concluso, dopo due anni di indagini, che a Gaza si stanno realizzando atti qualificabili come genocidio ai sensi della Convenzione del 1948. Nel rapporto, pubblicato il 16 settembre 2025, si riconosce che Israele ha commesso quattro delle cinque condotte tipiche del genocidio: uccidere membri del gruppo; causare gravi lesioni fisiche e mentali ai membri del gruppo; sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita calcolate per portarlo alla distruzione fisica, totale o parziale; imporre misure volte a prevenire le nascite all’interno del gruppo.

Elemento decisivo è l’intenzionalità genocidaria. La Commissione afferma che le autorità israeliane intendevano uccidere il maggior numero possibile di palestinesi, consapevoli che le strategie adottate – bombardamenti massicci in aree densamente abitate, blocco di cibo, acqua e medicinali, attacchi a ospedali, rifugi e convogli di evacuazione – avrebbero provocato morti di massa, inclusi bambini. Le vittime, si sottolinea, sono state colpite non come singoli individui ma in quanto palestinesi, cioè membri di un gruppo nazionale protetto dal diritto internazionale.

Il rapporto colloca la guerra di Gaza in un quadro storico più ampio: decenni di occupazione e colonizzazione, pratiche di apartheid e negazione del diritto all’autodeterminazione. L’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 è qualificato come crimine di guerra, ma la Commissione osserva che non costituiva una minaccia esistenziale per Israele e non può giustificare operazioni militari tese alla “vendetta e punizione collettiva”. Obiettivi dichiarati come la liberazione degli ostaggi e la neutralizzazione di Hamas, si legge, hanno mascherato lo scopo reale: la distruzione della comunità palestinese di Gaza.

Nelle raccomandazioni finali, la Commissione chiede a Israele di interrompere immediatamente le pratiche genocidarie e dichiarare un cessate il fuoco, e agli Stati terzi di adottare un embargo militare, collaborare con le corti internazionali e intervenire per fermare le violazioni. Il rapporto, che sarà presentato all’Assemblea generale a ottobre, rappresenta il primo riconoscimento formale da parte di un organo delle Nazioni Unite della responsabilità statale di Israele per genocidio a Gaza.

La Commissione è composta da tre esperti indipendenti di fama internazionale:

  • Navi Pillay, presidente della Commissione. Giurista, già Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (2008-2014) e giudice presso la Corte penale internazionale per il Ruanda (ICTR) e la Corte penale internazionale (CPI). Figura di massimo rilievo nel diritto internazionale e nei meccanismi di giustizia transnazionale;
  • Miloon Kothari, relatore speciale ONU sul diritto a un alloggio adeguato (2000-2008), architetto e pianificatore urbano, impegnato da decenni nei movimenti internazionali per i diritti economici, sociali e culturali;
  • Chris Sidoti, giurista e attivista per i diritti umani, già Commissario australiano per i diritti umani e membro di diverse indagini e missioni ONU, con lunga esperienza nelle organizzazioni non governative e nei sistemi di monitoraggio internazionale.

Tre inganni sul genocidio di Gaza

Tre sono gli argomenti ingannevoli dell’articolo di Ernesto Galli Della Loggia contro l’uso della parola “genocidio” per definire quanto Israele sta facendo a Gaza.

Il primo è fingere che “genocidio” sia solo una parola bandiera agitata da una nicchia movimentista e poi adottata da tutti in coro. Come se non esistesse una causa aperta alla Corte Internazionale di Giustizia, che ha ammesso la plausibilità del genocidio e ordinato a Israele di prevenirlo. Come se non ci fossero rapporti ONU e ONG, o un dibattito storico e giuridico documentato. Si può non condividere l’uso del termine, ma ignorarne la plausibilità e ridurre tutto a un riflesso emotivo o malevolo è una scelta che rivela debolezza, non rigore.

Il secondo è scivolare nel sarcasmo, dopo aver rifiutato di prendere sul serio le tesi avversarie. Allora Israele, “stato genocida”, sarebbe inefficiente rispetto alla Germania nazista perché ha ucciso solo 60 mila persone in due anni, invece di milioni. Ma il genocidio non si misura in quantità di morti: la differenza non sta nei mezzi ma nel contesto. La Germania agì dentro una guerra totale, senza diritto internazionale codificato, senza opinione pubblica libera, senza alleati democratici da cui dipendere. Israele invece è vincolato da tutti questi fattori, e se intende spingere verso la distruzione del popolo palestinese deve farlo in modo mitigato e graduale.

Il terzo è assumere la Shoah come unico modello genocida e farne un’asticella al di sotto della quale non può esserci genocidio. Ma la memoria della Shoah non serve a fissare un metro di misura, bensì a riconoscere e prevenire ogni progetto di deumanizzazione e distruzione. Altri genocidi di entità numericamente inferiore – dal Ruanda a Srebrenica (riconosciuto genocidio dalla Corte internazionale nel 2007) – non hanno banalizzato Auschwitz, ma hanno mostrato che il crimine può assumere forme diverse. Ogni genocidio è eccezionale. L’alternativa è considerare “normale” Gaza, come semplice sfondo alle notizie quotidiane.

L’uso del termine “genocidio” deve misurarsi con la definizione della Convenzione ONU del 1948: «atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso». È plausibile riconoscervi il caso palestinese: Israele percepisce i palestinesi come minaccia demografica, rifiuta sia i due Stati sia lo Stato unico binazionale, e ormai perfino lo status quo di apartheid, giudicato insostenibile dopo il 7 ottobre 2023. Restano la pulizia etnica e il genocidio. Forse non condivisi integralmente dai vertici israeliani, ma certo presenti come opzione politica e, da quel che vediamo, come pratica sul terreno.

L’uso di termini quali “strage”, “massacro”, “eccidio” proposti dall’autore in alternativa a “genocidio” sono spesso usati per descrivere azioni violente e concentrate nel tempo. Come l’attacco del 7 ottobre, che non a caso nominiamo con la data di un giorno. Questi termini non rendono invece conto di un’azione prolungata per anni in forme che tendono alla distruzione totale delle condizioni materiali di vita di un intero popolo.

Se si è in dubbio, non è obbligatorio assumere una posizione netta e definitiva adesso. Serve esprimersi e agire per fermare l’azione militare contro la popolazione di Gaza, altrimenti il genocidio, se non c’è, ci sarà. Il pericolo è riconosciuto anche da voci che negano la definizione: Liliana Segre e Benny Morris, intervistati per contraddire David Grossman, hanno ammesso che quando si arriva ad affamare e a uccidere in massa la popolazione, il rischio di genocidio c’è.

Non banalizzare il dibattito, dunque, ma riconoscere almeno la plausibilità del genocidio e l’imperativo di prevenirlo.

IAGS: “A Gaza è genocidio”

La International Association of Genocide Scholars (IAGS), la più grande associazione accademica al mondo di studiosi del genocidio fondata nel 1994, ha approvato una risoluzione il 31 agosto 2025 con l’86% dei voti favorevoli tra i membri partecipanti, affermando che le politiche e le azioni di Israele a Gaza soddisfano i criteri legali per definire il conflitto un genocidio secondo l’articolo II della Convenzione delle Nazioni Unite del 1948 sul genocidio. La risoluzione di tre pagine invita Israele a cessare immediatamente atti che costituiscono genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità contro i palestinesi di Gaza.

L’IAGS ha basato questa valutazione sulle azioni di Israele durante un conflitto protratto di 22 mesi, tra cui attacchi a infrastrutture essenziali come il settore sanitario, assistenza umanitaria, scuole e case, la morte o il ferimento di circa 50.000 bambini secondo l’UNICEF, la forzata espulsione della maggior parte dei 2,3 milioni di palestinesi di Gaza e dichiarazioni di leader israeliani che denigrano e minacciano di distruggere Gaza. Questi elementi sono considerati da molteplici esperti e organizzazioni come indicativi di un intento genocida, ossia l’intento di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. La risoluzione ha anche rilevato il sostegno di numerosi documenti ONU e ONG a questa conclusione.

Questa ulteriore autorevole presa di posizione smentisce i sostenitori di Israele, che rifiutano di riconoscere persino la plausibilità del genocidio, fondando il loro rifiuto sul confronto diretto con la Shoah: il genocidio dovrebbe essere fine a se stesso e pianificato allo scopo di eliminare un intero popolo. Ma la Shoah non è l’unico modello di genocidio.

La definizione di genocidio

La definizione giuridica di genocidio risale al 9 dicembre 1948. Fu deliberata dall’Assemblea generale dell’ONU nella Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, scritta con il contributo di Raphael Lemkin. L’articolo II della Convenzione definisce esplicitamente il genocidio nell’ambito del diritto internazionale:

Per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale:

  • (a) uccisione di membri del gruppo;
  • (b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo;
  • (c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;
  • (d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo;
  • (e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro.

Quale di questi atti non è compreso nell’azione militare israeliana a Gaza?

La conseguenza “obbligata”

Il genocidio rischia di apparire come la conseguenza “obbligata” di un governo israeliano dominato dall’estremismo nazionalista, se si escludono tutte le soluzioni alternative. L’ex presidente della Knesset, Avraham Burg, disse che il conflitto israelo-palestinese non si conclude, perché Israele non sa scegliere tra la questione territoriale e la questione demografica.

  • Una sola soluzione è conforme al diritto internazionale. Due popoli, due stati. Israele riconoscere l’autodeterminazione del popolo palestinese e gli permette di costituirsi in stato sovrano e indipendente sui Territori Palestinesi Occupati. Questo implica da parte di Israele la rinuncia a Gaza e alla Cisgiordania e il ritiro dei coloni, a meno che i coloni non accettino di sottostare alla sovranità palestinese.
  • Una seconda soluzione non compatibile con le attuali risoluzioni ONU, potrebbe essere comunque civile e democratica. Israele annette i Territori Palestinesi Occupati e concede la cittadinanza ai suoi abitanti, che vanno ad aggiungersi alla minoranza arabo-israeliana, la quale, seppure discriminata come gruppo, gode dei diritti individuali e di condizioni di vita dignitose, perciò coesiste pacificamente con gli ebrei israeliani. Questa soluzione implica che gli ebrei israeliani rinuncino alla garanzia del primato demografico: in futuro potrebbero perdere la maggioranza.
  • La terza soluzione è stata praticata fino al 7 ottobre 2023. Un regime di segregazione di fatto. Gaza assedia, Cisgiordania occupata e colonizzata, ma non annesse. Questa soluzione però è instabile, induce i palestinesi alla resistenza violenta, e dopo l’attacco di Hamas è diventata intollerabile per un governo già indisponibile alle due precedenti soluzioni.

Cosa rimane? L’espulsione dei palestinesi, una pulizia etnica contro una popolazione senza possibilità di fuga, che diventa genocidio.