Neonati morti di freddo a Gaza: realtà, non propaganda

Tra il 26 dicembre 2024 e il 7 gennaio 2025 almeno otto neonati sono morti per ipotermia a Gaza. Lo ha denunciato l’Unicef, confermato da medici locali e da organizzazioni come OMS, Médecins Sans Frontières e Islamic Relief. Eppure, la notizia è stata accolta da molti commentatori filo-israeliani come l’ennesima “fake news di Hamas”: come possono morire dei bambini di freddo se le temperature, quell’inverno, sono state relativamente miti?

In effetti, tra fine dicembre e inizio gennaio le temperature diurne a Gaza hanno oscillato tra i 15 e i 19°C, quelle notturne tra i 10 e i 15°C. Valori che, presi in astratto, non sembrano mortali. Ma il contesto reale va considerato: Gaza è una zona costiera con livelli di umidità molto alti (65–70%) e venti costanti che amplificano la percezione del freddo. La sensazione termica può scendere di diversi gradi, soprattutto di notte. Se a questo si aggiungono tende fradice di pioggia e abitazioni sventrate, il quadro cambia radicalmente.

I neonati sono i più esposti a queste condizioni. Il loro sistema di termoregolazione è immaturo: non riescono a mantenere una temperatura corporea stabile in ambienti freddi senza protezione. I piccoli nati prematuri o sottopeso – numerosissimi a Gaza, dove la malnutrizione colpisce donne incinte e neonati – sono ancora più vulnerabili. La carenza di cibo riduce la capacità del corpo di generare calore, e l’assenza di incubatrici o assistenza adeguata rende impossibile trattare i casi di ipotermia. In ospedali come il Kamal Adwan e l’Al-Aqsa, spesso sotto attacco o privi di elettricità, medici come Wisam Shaltout e Saeed Salah hanno visto arrivare neonati con temperature corporee sotto i 34°C, già in stato critico. Molti non sopravvivono nonostante i tentativi di rianimazione.

La responsabilità di queste morti non è il clima, ma il contesto disumano in cui i bambini sono costretti a nascere e crescere. Oltre 1,9 milioni di persone – il 90% della popolazione – sono sfollate, vivono in tende fragili e non hanno accesso a coperte, stufe o carburante. A dicembre 2024 sono entrati a Gaza appena 160 camion di aiuti per ripari: prima del conflitto erano 500 al giorno. Per riscaldarsi, molte famiglie bruciano plastica o legna raccolta tra le macerie, con effetti minimi e pericolosi per la salute.

Di fronte a questo quadro, l’accusa di “fake news” non regge. Certo, in passato ci sono stati episodi di disinformazione – come l’articolo del Jerusalem Post del dicembre 2023 che scambiò per bambola un bambino morto – ma in questo caso i dati sono confermati da più fonti indipendenti e da testimonianze mediche dirette. Negare le morti per ipotermia serve soltanto a rimuovere la responsabilità politica di un assedio che priva la popolazione civile, e in particolare i neonati, delle condizioni minime di sopravvivenza.

Non è il termometro a spiegare perché si muore di freddo a Gaza. Sono le macerie, le tende bagnate, la fame e l’assedio.

Perché discuto con i filoisraeliani

Mi viene chiesto, e non da oggi, perché discuto con i filoisraeliani, con i sionisti, con i negazionisti. Perfino ora che a Gaza è in corso un massacro, forse un genocidio. La domanda pare un complimento: “che pazienza, sembri un santo”. Ma ci sento dentro una nota di rimprovero: “non dovresti parlare con loro”, “non dovresti legittimarli”.

Provo a rispondere così.

Anzitutto, credo che il mio modo di relazionarmi agli altri debba essere coerente con ciò che penso. Se voglio la pace, la convivenza e la giustizia, il mio comportamento deve essere pacifico, tollerante e giusto. Non mi convince chi lotta contro la guerra con toni bellicosi, perché manda un messaggio divergente. Allo stesso modo, se mi oppongo alla cancellazione dei palestinesi, non posso comportarmi come se volessi cancellare i sostenitori di Israele: sarebbe una contraddizione.

C’è poi un altro punto. Le persone che hanno uno spirito militante tendono a simboleggiare: vedono nell’interlocutore il rappresentante di una ideologia, un partito, un sistema, uno stato. Così il filoisraeliano diventa Israele, il filopalestinese diventa Hamas. Rifiuto questa logica. Anche se il mio interlocutore si presenta come “voce di Israele”, io lo considero una persona, non uno Stato. Lo stesso chiedo per me: non sono il portavoce di un gruppo, ma un individuo con le sue idee.

Infine, c’è una ragione più pratica. Le persone imparano meglio per opposizione. Se scrivo un testo con la mia versione della realtà, ha un certo impatto. Ma se mi misuro in un contraddittorio, l’effetto è maggiore: chi legge vede se certi argomenti reggono oppure no alla prova dei fatti e della logica, trova contro-argomentazioni da usare, si orienta meglio. Il dialogo non serve a convincere chi mi sta di fronte, ma a dare strumenti a chi osserva la discussione.

Per questo continuo a discutere. Non è indulgenza, né è neutralità. Vuole essere coerenza e rispetto per la dignità delle persone come individui, un modo per confutare le bugie o le cattive argomentazioni nel momento stesso in cui vengono pronunciate. Discutere, per me, non significa concedere: significa resistere in modo pacifico e coerente.

L’83% delle vittime a Gaza sono civili

L’83% delle vittime a Gaza sono civili

Secondo un’inchiesta del Guardian, basata su un database classificato dell’esercito israeliano, a maggio 2025 il bilancio della guerra a Gaza era di 53.000 morti, di cui appena 8.900 combattenti di Hamas o della Jihad islamica. Significa che l’83% delle vittime erano civili.

Un rapporto così sbilanciato è eccezionalmente raro nelle guerre moderne. Therése Pettersson, ricercatrice dell’Uppsala Conflict Data Program, osserva che percentuali simili si trovano solo in episodi estremi come Srebrenica, il genocidio in Rwanda o l’assedio russo di Mariupol. Nemmeno le guerre civili siriana e sudanese, note per le uccisioni indiscriminate, hanno prodotto una quota di civili tanto alta per un periodo così lungo.

Tra i ‘soli episodi’ c’è l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, che uccise 1.195 persone di cui 828 civili (il 68,2%), una delle aggressioni più cruente contro civili in tempi recenti. Ma a Gaza quella percentuale è stata superata e stabilizzata su scala di massa.

Alcuni sostenitori del governo israeliano paragonano la guerra a Gaza a una “guerra totale” come la seconda guerra mondiale. Eppure, alla fine di quel conflitto, la percentuale di vittime civili era molto più bassa: 32% in Germania, 34% in Italia, 17% in Giappone.

Lo sciopero generale israeliano

Lo sciopero generale israeliano. La piazza di Tel Aviv

Il post di Lorenzo Tosa sullo sciopero generale israeliano ha una linea chiara e, secondo me, coglie un punto reale: la grande mobilitazione in Israele non nasce da empatia per i palestinesi, ma dal dolore e dalla pressione delle famiglie degli ostaggi. La manifestazione di Tel Aviv è stata centrata sullo slogan “Riportateli tutti indietro”, e questo dato oggettivo va riconosciuto.

Ma, Tosa semplifica il senso della piazza. È vero che non era una manifestazione per Gaza, ma dentro quella moltitudine c’erano anche persone e gruppi critici verso la guerra in quanto tale, capaci anche di pronunciare la parola “genocidio” o che vedono la liberazione degli ostaggi legata al cessate il fuoco. Non è stata una piazza “per i palestinesi”, ma non stata neanche impermeabile a un discorso di solidarietà e di soccorso ai palestinesi.

Anche se motivata da ragioni “nazionali”, la protesta indebolisce Netanyahu e spinge verso un cambio di linea politica. In questo senso, può avere un effetto indiretto anche sulla fine della guerra, pur non nascendo da una solidarietà diretta verso i palestinesi.

Il post sembra quasi voler “raffreddare” chi, in buona fede, aveva letto la protesta come una mobilitazione per Gaza. È una precisazione giusta, ma rischia di scivolare nel disincanto totale: il messaggio implicito è che non ci si può aspettare nulla da Israele sul piano della coscienza morale collettiva. Questo può portare a un fatalismo che non riconosce sfumature e processi interni.

Non possiamo esser certi che “se tutti gli ostaggi fossero tornati a casa, anche di fronte a 60.000 morti palestinesi e il quintuplo torturati dalla fame, in quella piazza non ci sarebbe stato che qualche migliaia di persone, forse neanche quelli”.

Se tutti gli ostaggi fossero tornati a casa, forse in Israele ci sarebbe più spazio per l’empatia e la guerra avrebbe più difficoltà a trovare una giustificazione.

Tosa ha ragione a dire che quella piazza non era per Gaza. Però sottovaluta che, anche se il motore principale è “egoistico” (gli ostaggi), questa mobilitazione può aprire crepe nella narrazione dominante e spingere a soluzioni favorevoli anche alla sorte dei palestinesi.

L’assassinio di Anas Al-Sharif

L’assassinio di Anas Al-Sharif

Sull’assassinio di Anas Al-Sharif, molti sostenitori di Israele hanno riciclato le consuete carte dell’IDF: il giornalista sarebbe un terrorista di Hamas sotto copertura. Peccato che le ‘prove’ – documenti finanziari opachi, video granulosi, post decontestualizzati – siano inverificabili e, sul piano logico, poco credibili: perché mai Hamas dovrebbe usare giornalisti come copertura in un territorio che già controlla? A Gaza, i reporter non ‘coprono’ nulla, sono anzi tra le categorie più prese di mira. E anche se fosse, un agente sotto copertura non diventerebbe certo una star dei social e il volto più noto di Al Jazeera.

C’è però un difensore di Israele, Andrew Fox, che va oltre le giustificazioni convenzionali: per lui, Al-Sharif era un bersaglio legittimo non (solo) per presunti legami con Hamas, ma perché giornalista di un network che ‘combatte’ la guerra dell’informazione. Gaza, insomma, si conquista anche a colpi di hashtag e dirette TV. Una tesi che equipara il giornalismo alla guerra asimmetrica, autorizzando di fatto l’omicidio di chiunque influenzi l’opinione pubblica. Se fosse coerente, Fox dovrebbe accettare che anche la sua retorica – volta a manipolare il dibattito – lo renda un ‘bersaglio’. Ma il punto è questo: se ogni reporter scomodo può essere bollato come ‘combattente’, la libertà di stampa è già morta.

Il video dell’ostaggio israeliano denutrito

Hamas ha diffuso un video scioccante: l’ostaggio israeliano Evyatar David, denutrito e fragile, scava una fossa in un tunnel a Gaza

Hamas ha diffuso un video scioccante: l’ostaggio israeliano Evyatar David, visibilmente denutrito e fragile, scava una fossa in un tunnel a Gaza. Dice di non mangiare da giorni, di sopravvivere con una piccola lattina di legumi ogni due giorni, di segnare su un calendario le giornate di digiuno assoluto. Il volto pallido, il corpo smagrito, la voce debole testimoniano una condizione estrema.

La sua detenzione è disumana: privazione di cibo, umiliazione, uso del suo corpo e della sua immagine come arma di pressione e guerra psicologica. Condivido la pena e l’indignazione per le condizioni in cui è detenuto questo ragazzo.

Tuttavia, la fame a Gaza non riguarda solo gli ostaggi. Le agenzie ONU avvertono che gli indicatori di alimentazione e nutrizione superano ormai le soglie della carestia. Secondo l’ultimo aggiornamento IPC, più di una persona su tre (39%) trascorre interi giorni senza mangiare; oltre 500.000 persone – quasi un quarto della popolazione – vivono in condizioni assimilabili alla carestia, mentre il resto affronta livelli di fame di emergenza. La malnutrizione acuta tra i bambini sotto i cinque anni a Gaza City è quadruplicata in due mesi, toccando il 16,5%: una soglia che implica un rischio concreto di morte per fame.

In un contesto simile, è difficile immaginare che Hamas possa nutrire adeguatamente i suoi prigionieri.

Già nel dicembre 2023, ufficiali dell’IDF avevano avvertito: distruggere Hamas e salvare gli ostaggi sono obiettivi in contraddizione. I bombardamenti sulle aree densamente abitate, la distruzione delle infrastrutture, gli sfollamenti forzati e il blocco degli aiuti alimentari e umanitari indicano che il governo israeliano non ha fatto della salvezza degli ostaggi la sua priorità. Lo confermano le proteste delle famiglie, che, fatte salve le colpe di Hamas, indicano il governo israeliano come il principale responsabile.

Gaza e Mariupol

Mariupol distrutta, marzo 2022
Mariupol distrutta, marzo 2022

Qualcuno, ad esempio Pierluigi Battista, ha mostrato le foto aeree di Mariupol distrutta nel 2022. Come a dire: voi che oggi denunciate la distruzione di Gaza, avete ignorato altre catastrofi simili. Fate due pesi e due misure.

Ma in questo modo, il giornalista finisce per paragonare – forse senza rendersene conto – i distruttori di Gaza ai distruttori di Mariupol. E se davvero volesse evitare il vizio del doppio standard, dovrebbe condannare entrambi. Invece no: è solidale con l’Ucraina, ma anche con Israele. Dunque, siamo di fronte al classico caso del bue che dà del cornuto all’asino.

È vero, alcuni osservatori adottano doppi standard. Ma non tutti. Per molti altri la differenza non sta nell’intensità della distruzione, ma nel contesto politico e morale. Nel caso dell’Ucraina, è chiaro chi è l’aggressore e chi è l’aggredito. Ed è proprio per questo che i nostri governi – italiani, europei, americani – sanzionano la Russia e sostengono l’Ucraina anche con le armi. Che altro dovremmo chiedere loro?

Al contrario, nel caso di Gaza assistiamo a una distruzione sistematica e a una crisi umanitaria deliberatamente provocata, ma i ruoli sono capovolti: l’aggressore, Israele, non solo non è sanzionato, ma viene attivamente sostenuto da USA e UE, con armi, denaro e copertura diplomatica. E i palestinesi – vittime di un’occupazione, di un assedio, di un massacro e ora anche della fame – vengono lasciati soli.

Per questo, se nel caso ucraino i governi fanno – almeno in parte – quel che devono, su Gaza sono assenti o complici. E allora tocca a noi: all’opinione pubblica, alla società civile, ai giornalisti liberi, svolgere un ruolo di supplenza politica e morale.

Fare a gara per colpire le ginocchia dei manifestanti

Gara tra i cecchini israeliani per colpire alle ginocchia i manifestanti di Gaza, compresi i bambini, durante le marce per il ritorno

Anche di fronte a crimini di guerra gravi, ci sono notizie che stentiamo a credere, tanto appaiono insensate. Tuttavia sappiamo che in guerra – e non solo in guerra – la pratica di disumanizzare il nemico porta spesso a disumanizzare anche se stessi, fino a sfociare in una crudeltà gratuita. Per questo, per quanto sembri incredibile, non possiamo liquidare con leggerezza la denuncia di Francesca Albanese: soldati israeliani che, nei centri di distribuzione del cibo, sparano tra i civili ammassati, mirando anche alla testa e ai testicoli dei bambini.

Eppure, comportamenti simili sono già stati denunciati e documentati, anche dalla stampa israeliana. Per esempio, Haaretz, nel marzo 2020, riportò le testimonianze di soldati israeliani che raccontavano come i cecchini facessero a gara tra loro – con tanto di punteggi assegnati – per colpire le ginocchia dei manifestanti, compresi i bambini, durante le Marce del Ritorno. Una forma di lotta non violenta dei gazawi contro l’assedio, che l’IDF ha represso con centinaia di morti e migliaia di feriti, tra cui molti bambini amputati alle gambe.