
Qualcuno ha paragonato la Global Sumud Flotilla del 2025 al movimento noglobal del 2001 con un’accusa odiosa: “oggi come allora cercano il morto”. Non contro chi uccide, ma contro chi si espone.
Al G8 di Genova Berlusconi valutò di isolare i potenti in una nave al largo del porto, ma Bush jr respinse l’idea perché sarebbe sembrata un segno di debolezza. L’idea fu poi seguita negli anni successivi, organizzando il G8 in luoghi irraggiungibili. Ma nel 2001 prevalse ancora la prova di forza: una zona rossa nel cuore della città, blindata dalle forze dell’ordine.
Con una pubblica “dichiarazione di guerra all’impero”, le tute bianche annunciarono che avrebbero cercato di violarla. Non si trattava di un atto violento, ma di un’azione simbolica, come già avvenuto in altre occasioni concordate con la polizia. L’idea aveva un senso: proporre una pratica non distruttiva a chi, giovane e arrabbiato, poteva essere tentato dalla violenza dei blocco nero.
Personalmente ero contrario. Si camminava sul filo del rasoio di fronte a un governo inaffidabile, con dentro una componente che voleva la repressione. Gianfranco Fini sedeva nella “cabina di regia” delle forze dell’ordine, che si rivelarono “mal coordinate” ma spietate.
Il movimento non voleva il morto. Una parte del governo e della sua opinione pubblica, sì. Il ministro dell’interno autorizzò a sparare. Sui giornali di destra e nei forum della prima internet si incitava all’uso delle armi.
Il 20 luglio 2001 Carlo Giuliani fu ucciso. Centinaia di manifestanti pacifici furono pestati selvaggiamente, mentre i black bloc devastavano la città indisturbati.
Non si trattò solo della gestione violenta di una immensa piazza. A bocce ferme successe altrettanto. La notte, alla scuola Diaz, pacifici manifestanti furono aggrediti nel sonno e pestati a sangue dalla polizia in quella che un poliziotto definì “una macelleria messicana”. I manifestanti arrestati furono torturati per giorni nella caserma di Bolzaneto.
Il New York Times parlò della “più grande sospensione dei diritti civili in un paese occidentale dopo la Seconda guerra mondiale”. A 24 anni di distanza, la ferita è ancora aperta.
La Flotilla si trova in una situazione paragonabile solo per un aspetto: anche oggi la controparte è inaffidabile. Netanyahu, in due anni, ha mostrato di poter oltrepassare ogni linea rossa: ha colpito civili palestinesi, giornalisti, operatori umanitari, funzionari ONU, persino stati sovrani.
Non è un’ipotesi astratta. Il 31 maggio 2010, l’IDF abbordò la Freedom Flotilla diretta a Gaza: nove attivisti furono uccisi subito, un decimo morì dopo mesi di coma.
Per questo, pur criticando le proposte di mediazione dell’Italia – che ignorano il diritto internazionale e tacciono sul blocco illegale di Gaza – non pretendo che la Flotilla vada fino in fondo. Capisco chi vuole proseguire e chi vuole ritirarsi.
Hanno già fatto molto e potranno fare ancora tanto. Qualunque scelta compiano, la mia ammirazione e solidarietà rimane intatta.



