La pace di Trump per Gaza va bene ma non basta

La pace di Trump per Gaza adesso va bene ma non basta

Visto da destra, il “piano di pace Trump” per Gaza — che ha imposto a Israele e Hamas un cessate il fuoco duraturo, con la mediazione di Egitto e Qatar — è diventato un pretesto per attaccare la sinistra.

Secondo la narrazione governativa, la sinistra non sarebbe contenta che la pace a Gaza sia stata imposta proprio da Trump. Né sopporterebbe che il merito vada al presidente americano invece che alle manifestazioni, alla Flotilla, a Greta Thunberg o a Francesca Albanese. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha riassunto così il concetto: «La sinistra è più fondamentalista di Hamas».

Sorprende che un governo stabile e longevo senta il bisogno di polemizzare in modo così sguaiato con l’opposizione. Ma entriamo nel merito.

Al momento è stata concordata soltanto la prima fase del piano, quella che prevede la fine dei combattimenti, lo scambio di ostaggi e prigionieri e un ritiro parziale dell’esercito israeliano dalla Striscia. Le prossime fasi, che riguarderanno il futuro politico della Striscia di Gaza, il completamento del ritiro israeliano e la smilitarizzazione di Hamas, sono più complicate e potrebbero fallire più facilmente.

Ci dispiace che il cessate il fuoco lo stia imponendo Trump?

Non poteva essere diverso. Abbiamo sempre saputo che solo gli Stati Uniti hanno il potere di fermare Israele. Intervistato all’inizio della guerra di Gaza, l’ex ministro degli Esteri israeliano Shlomo Ben-Ami rispose alla domanda “Quando finirà?” con una frase lapidaria: «Dipende da quando si chiuderà la finestra che l’America ci concede».

In alcuni momenti era sembrato che Joe Biden quella finestra volesse chiuderla. Per esempio nel maggio 2024, quando l’IDF si apprestava a distruggere Rafah, ma Netanyahu diede comunque il via all’operazione. Biden era però in una condizione particolare, segnata da limiti di salute e di consenso. Con un nuovo presidente, che fosse Harris o Trump, era inevitabile che, questione di tempo, la finestra si richiudesse.

Eppure anche con Trump, inizialmente, si è ripetuto lo stesso schema: aveva realizzato un cessate il fuoco il giorno prima dell’insediamento, il 19 gennaio, ma Netanyahu lo ha rotto il 18 marzo; stava trattando con l’Iran a giugno, ma Netanyahu ha attaccato l’Iran; stava negoziando di nuovo una tregua con Hamas ad agosto, ma Netanyahu ha tentato di uccidere la delegazione di Hamas, senza riuscirci, colpendo perfino Doha, alleato strategico degli Stati Uniti. Quel fallimento ha segnato l’inizio della fine: lì si è chiusa davvero la finestra americana.

E finalmente.

Perché se il cessate il fuoco regge, finisce il calvario degli ostaggi e il grande strazio quotidiano delle vittime innocenti, dei feriti, degli affamati, dei lutti e delle distruzioni. Si interrompe il genocidio — o la marcia verso l’espulsione forzata dei palestinesi. Come si fa a non esserne contenti? E come non vedere che con la fine dei bombardamenti finisce anche il piccolo strazio morale di chi, in questi due anni, ha negato o giustificato l’orrore di Gaza?

Non deve stupire che il protagonista sia Trump. Non è la prima volta che negli Stati Uniti la pace arriva da leader conservatori o reazionari. Nixon e Kissinger avviarono il dialogo con la Cina di Mao, si ritirarono dal Vietnam e promossero la distensione con l’Urss. Reagan fu l’interlocutore della pace di Gorbaciov. In Israele, Sharon ritirò i coloni da Gaza — per congelare il processo di pace, ma i laburisti non fecero nemmeno quello.

Questi leader, proprio perché di destra, possono permettersi atti di pragmatismo senza temere accuse di debolezza o tradimento da parte dell’opposizione. Per lo stesso motivo, Trump può imporre a Gaza una pace sbilanciata a favore di Israele, ma non può farlo in Ucraina a favore della Russia: lì l’opposizione democratica e l’Europa lo accuserebbero di arrendersi a Putin. E già lo fanno.

Non per questo vanno svalutati altri fattori. Le grandi manifestazioni, la Flotilla, la popolarità di figure come Greta Thunberg o Francesca Albanese sono il termometro di un orientamento dell’opinione pubblica che cresce in intensità contro la guerra. E di questo, i governi europei e lo stesso presidente americano tengono conto.

Hamas ha fatto bene ad accettare il piano Trump: per urgenti ragioni umanitarie e per la responsabilità del 7 ottobre. E noi facciamo bene a essere felici di quel sì.

Ma noi non siamo Hamas. Non dobbiamo comportarci come una delle parti in causa. Siamo cittadini europei. Dobbiamo apprezzare la fine dei massacri, la liberazione degli ostaggi e, insieme, criticare le insufficienze e gli squilibri di un piano che, se non apre una prospettiva di giustizia, resterà soltanto una tregua — anche molto breve.

La parte umanitaria del piano Trump

Piano Trump

Spero che Hamas accetti il piano Trump. Non perché lo consideri giusto o equilibrato, ma perché contiene una parte umanitaria che da sola basterebbe a giustificarne l’adesione: cessate il fuoco immediato, liberazione degli ostaggi entro 72 ore, scarcerazione di 1700 prigionieri palestinesi, ripresa degli aiuti dell’ONU, ricostruzione delle reti idriche ed elettriche, degli ospedali e delle attività commerciali distrutte.

Rilevante anche la rinuncia alla deportazione forzata: i civili palestinesi potrebbero lasciare la Striscia se lo volessero, ma non sarebbero obbligati. Occorrerebbe però specificare che a chiunque scelga di partire spetterebbe sempre il diritto al ritorno.

Il nodo più controverso riguarda il futuro governo di Gaza: una “commissione palestinese tecnocratica e apolitica” sotto la supervisione di un “Consiglio della Pace” guidato da Trump e delegato a Tony Blair. In sostanza, un protettorato anglo-americano. Restano inoltre indefiniti i tempi del ritiro israeliano e l’estensione della zona cuscinetto.

Il disarmo di Hamas potrebbe essere positivo per i civili, ma resta una misura imposta dall’esterno. E l’intera proposta ha la forma di un ultimatum: a Hamas sono concessi solo pochi giorni per accettare una resa quasi incondizionata, senza margini di negoziazione, sotto la minaccia di lasciare Israele libero di “finire il lavoro”.

Se mi mettessi nei panni di Hamas, accetterei lo stesso. Sarebbe una sconfitta formalizzata, ma non necessariamente la fine. Le ideologie non muoiono uccise dalle armi: se sopravvivono le cause che le hanno generate, possono trasformarsi e rinascere. Dopo il 1945 il nazifascismo fu schiacciato da una grande alleanza antifascista. Eppure minoranze nostalgiche si riorganizzarono, fecero ancora danni e oggi sono tornate al governo in Italia, si candidano in Germania, hanno un peso rilevante in molti paesi occidentali. Forse sono persino al governo negli Stati Uniti e in Russia. Perché Hamas non dovrebbe avere un futuro, magari in forme diverse, politiche o clandestine?

Nessuna vittoria militare basta, da sola, a risolvere un conflitto politico.

L’omicidio di Charlie Kirk

Sull’omicidio di Charlie Kirk, attivista e influencer della destra statunitense, valgono più di ogni altra cosa le parole del socialista Bernie Sanders, esponente dell’opposizione democratica.

Sull’omicidio di Charlie Kirk, attivista e influencer della destra statunitense, valgono più di ogni altra cosa le parole del socialista Bernie Sanders, esponente dell’opposizione democratica.

«Nonostante fossi in forte disaccordo con lui su quasi tutti i temi, Kirk era un comunicatore e un organizzatore molto efficace, coraggioso nel confrontarsi pubblicamente. Esprimo le mie condoglianze alla famiglia di Kirk e condanno con forza la violenza politica. La libertà e la democrazia non possono basarsi sull’assassinio di funzionari pubblici, sull’intimidazione o sulla violenza contro chi esprime opinioni politiche. L’omicidio di Kirk riflette una pericolosa escalation della violenza politica che mette a rischio la vita pubblica e scoraggia la partecipazione civile. L’essenza della democrazia è la possibilità di avere punti di vista diversi e discuterli senza paura di essere aggrediti o uccisi».

Le parole di Sanders non possono che risuonare in chi crede nella democrazia e nel socialismo.

Di tutt’altro tenore le dichiarazioni del presidente degli Stati Uniti, che ben più di un oppositore dovrebbe tendere all’unità del Paese. Donald Trump ha accusato la “sinistra radicale” di essere responsabile, o almeno di aver creato un clima favorevole all’omicidio di Kirk. Pur non conoscendo identità o movente dell’assassino al momento delle sue dichiarazioni, ha sostenuto che la sinistra demonizza figure come Kirk paragonandole a nazisti e criminali, e che questa retorica alimenta terrorismo e violenza. Ha promesso azioni contro le organizzazioni “colpevoli” di fomentare odio, ignorando al tempo stesso le vittime di matrice opposta.

In Italia Giorgia Meloni ha seguito la stessa linea. Ha reso omaggio a Kirk, definendolo un giovane coraggioso, ma poi ha puntato il dito contro una presunta cultura della sinistra italiana che minimizzerebbe la violenza politica. Ha evocato “falsi maestri in giacca e cravatta” che giustificherebbero l’omicidio, accusando indirettamente l’opposizione di alimentare il clima di odio.

Eppure, Tyler Robinson, sospettato come autore del delitto, non corrisponde al profilo di un attivista di sinistra. Ventiduenne dello Utah, cresciuto in una famiglia Maga e mormona, istruito all’uso delle armi dal padre, studente brillante, senza precedenti penali e con un interesse recente e discontinuo per la politica: il suo profilo contrasta con l’etichetta di “antifascista militante” che la destra ha cercato di appiccicargli.

La strumentalizzazione dell’omicidio di Kirk da parte di Trump e Meloni appare dunque molto forzata. Ma il problema della violenza politica resta reale. Negli Stati Uniti ha già colpito sia repubblicani sia democratici: l’assassinio della parlamentare Melissa Hortman e di suo marito, l’attentato incendiario contro il governatore Josh Shapiro, l’attacco a Donald Trump durante la campagna elettorale. Nel solo 2025 si sono contati circa 150 attacchi di matrice politica, quasi il doppio dell’anno precedente.

Il rischio è che la polarizzazione e la violenza politica degenerino in una guerra civile. La differenza rispetto alle situazioni di violenza politica del passato è che i leader oggi al potere, invece di ricomporre l’unità nazionale, cavalcano la divisione. Alimentano la psicologia della guerra – “noi contro loro” – trasformando il confronto democratico in una lotta esistenziale.

A questa logica occorre sottrarsi. Non bisogna offrire pretesti né lasciarsi trascinare nel gioco della provocazione. La difesa della democrazia passa anche da un linguaggio pubblico responsabile, capace di mantenere aperto lo spazio del confronto civile e di riconoscere nell’avversario non un nemico da abbattere, ma un interlocutore con cui disputarsi il futuro della comunità.