
Dal 15-16 settembre l’IDF ha lanciato l’offensiva su Gaza City: in poche ore centinaia di civili sono morti e decine di migliaia si sono messi in fuga lungo la costa verso il sud. Organizzazioni internazionali parlano di una città già in stato di carestia e ora travolta da un esodo forzato, con corridoi umanitari intermittenti e punti di accesso agli aiuti chiusi o inaffidabili. (Reuters)
Le ragioni ufficiali israeliane — smantellare la struttura militare di Hamas, liberare gli ostaggi, ridurre i rischi ai civili — si scontrano con una dura realtà operativa: solo una parte della popolazione è riuscita a evacuare, molte aree restano densamente popolate e ogni avanzata richiede presidi che l’IDF fatica a garantire senza richiamare massicciamente riservisti. Il capo di stato maggiore Eyal Zamir aveva avvertito che l’occupazione su larga scala rischia di mettere in pericolo gli ostaggi e trascinare Israele in una lunga guerriglia urbana. (JPost)
Il risultato più probabile è dunque un paradosso: vittorie tattiche locali accompagnate da perdite umanitarie massicce e nessuna soluzione politica per il “dopo”. A ciò si aggiunge il rischio — denunciato da osservatori e giuristi — che l’obiettivo reale diventi lo svuotamento forzato della città e la riconcentrazione della popolazione nell’estremo sud di Gaza in “campi umanitari”, nella prospettiva dell’espulsione. Una prospettiva respinta dall’Egitto e condannata come illegale dagli organismi internazionali. (Ocha)
Quel che serve ora è chiaro: corridoi umanitari realmente garantiti, uno stop alle evacuazioni forzate e una forte pressione diplomatica internazionale per negoziare un immediato cessate il fuoco che protegga civili e liberi gli ostaggi. Senza una strategia politica credibile, ogni “battaglia definitiva” rischia di ripetersi, lasciando dietro di sé solo più morte e distruzione.