Resistere senza farsi distruggere

L’essere integralmente qualcosa non mi appartiene, perciò è probabile che non sia un pacifista integrale. Sono contro la violenza e l’uso della forza. Però, in certi casi e a certe condizioni l’ammetto. Quando ha dalla sua una ragione giusta e fondamentale; se è capace di colpire in modo mirato e proporzionato; qualora sia efficace e rapida rispetto a scopi definiti. Il solo aver ragione è insufficiente. Coinvolgere innocenti e inermi è inammissibile. Prolungare il conflitto è disastroso, specie nel perseguire obiettivi confusi o improbabili. Queste condizioni per me valgono, sia se attacchi, sia se ti difendi.

Se ti difendi, la tua ragione è più nobile. Infatti, ogni aggressore cerca di appropriarsene per rivendicare a modo suo il diritto alla difesa. Il pubblico più sano è predisposto a solidarizzare con chi si difende: l’Ucraina invasa dalla Russia, i palestinesi massacrati dagli israeliani. Ma la solidarietà può incoraggiare a resistere e in questo sbaglia, se non ha i mezzi per offrire un sostegno concreto, se non rischia qualcosa in proprio.

L’Ucraina ha i mezzi per resistere, anche grazie all’aiuto occidentale. Tuttavia, la sua resistenza rallenta solo l’avanzata russa, non riesce a invertire il corso della guerra, che intanto si trascina da tre anni, bruciando la vita di una generazione di ucraini e anche di russi. Ne vale davvero la pena?

I palestinesi invece sono senza mezzi, a parte l’arsenale di Hamas che può infliggere un colpo a Israele e fare una circoscritta strage indiscriminata e perciò criminale, ma poi tutta la Striscia di Gaza è massacrata, devastata, affamata per mesi e anni. Hamas sopravvive mentre tutto ciò che la circonda muore. Ne vale davvero la pena?

L’indipendenza, la sovranità, l’autodeterminazione sono ideali e principi giusti. C’entrano con le condizioni materiali di esistenza, che sono il vero bene da salvaguardare. Ci si sente vivi a incarnare quegli ideali. Appunto, dovrebbero servire per vivere. Ma se muori a cosa servono? A far vivere altri che poi muoiono come te? Forse vivrai, moriranno i tuoi genitori, tua moglie, i tuoi figli, i tuoi amici. Vivrai, forse su una sedia a rotelle, se ce n’è ancora una disponibile. Oppure, tenendoti su due stampelle, mentre le tue gambe finiscono sopra il ginocchio. Potrai guardare tutto quello che non puoi toccare, perché ti hanno amputato le braccia senza anestesia. O non vedrai più nulla, perché sarai diventato cieco. Magari, invece sarai tutto intero, prigioniero in condizioni disumane.

Nella dolorosa desolazione della morte e della distruzione, che valore potrà ancora avere il motivo per cui hai combattuto o hanno combattuto altri a tuo nome, esponendoti al disastro? Quel valore non ti sarà reso dai tanti che alzano la tua bandiera sulle tastiere. Per non dire di quegli altri, pronti ad attraversare lo schermo per affermare che sei una fiscia sacrificabile o una fake news. E ti mostreranno mentre mangi la Nutella in un caffè di lusso.

Se pure il tuo sacrificio ottiene l’attenzione del mondo, molta parte di questo mondo è distratto, distante, ideologico, paranoico. T’iscrive dentro un conflitto più grande, una guerra fredda o uno scontro di civiltà e diventi il fantasma di un mostro. La tua fine è necessaria per un bene superiore, per qualche valore supremo, sulle orme dei nostri antenati del 1945, evocati ormai anche per giustificare una rissa. Oppure, sulla tua fine il mondo ci fa i soldi, vendendo armi, ruspe, servizi digitali, progetti di ricostruzione. Una parte del mondo manifesterà per te o salperà sulla nave per venirti a salvare, come atto politico e simbolico (onore a loro, perché in effetti rischiano). L’esito finale, però, difficilmente cambierà.

A volte la difesa, la resistenza è autodistruttiva, offre solo il pretesto al tuo carnefice per massacrarti ancora di più. Allora, la rinuncia, la resa, la fuga sono scelte dignitose. Anche la dignità vuole la vita e non la morte. La vita in salute. Ogni genitore ha il dovere di vivere finché i suoi figli non sono adulti e autosufficienti. Tutti i figli hanno il dovere di vivere finché i loro genitori non sono deceduti. La madre, dopo nove mesi di gravidanza e un parto, ha il diritto assoluto di non vedere il proprio figlio neonato spappolato dalle bombe o schiacciato sotto le macerie. E se la vita non si può costruire qui, si può andare altrove. Anche se, è vero che, pure spostarsi nel mondo e trovare accoglienza è diventata una guerra.

Qualcuno obietterà con l’esempio più alto: la Resistenza al nazifascismo. E avrebbe ragione. Ma quella lotta rientrava proprio nei criteri che ho delineato: aveva una ragione giusta e fondamentale; i suoi atti, per quanto duri, miravano a colpire un occupante e un regime oppressivo, cercando di preservare gli inermi; fu, nel suo contesto, efficace e rapida nel conseguire l’obiettivo definito di liberazione, anche grazie a una solidarietà internazionale concreta e determinante. Fu, in sostanza, una forza proporzionata al fine.

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