
La resistenza palestinese si oppone all’occupazione israeliana dei Territori Palestinesi Occupati (la Striscia di Gaza e la Cisgiordania). Una prima e immediata obiezione dice che Gaza non è più territorio occupato, perché Sharon ha ritirato i coloni nel 2005. Tuttavia, Israele ha mantenuto e ulteriormente stretto il controllo sui confini, lo spazio aereo e lo spazio marittimo di Gaza. Motivo per cui, secondo il diritto internazionale, Israele mantiene lo status di stato occupante anche nei confronti di Gaza. Inoltre, dall’ottobre 2023, tutta la Striscia di Gaza è sottoposta a una estrema punizione collettiva. Un massacro su larga scala, la distruzione della gran parte delle infrastrutture civili e dell’agricoltura, il blocco degli aiuti.
Un’obiezione più generale ricorda che la resistenza palestinese è precedente l’occupazione israeliana dei Territori. Inizia dalla costituzione dello stesso Stato d’Israele nel 1948, mentre Gaza era sotto l’Egitto e la Cisgiordania sotto la Giordania. Quindi è lecito pensare che i palestinesi resistono, non solo all’occupazione, ma all’esistenza stessa di Israele. Infatti, non hanno mai cercato di liberarsi dall’Egitto e dalla Giordania. D’altra parte, Hamas, l’organizzazione islamista che dagli anni ‘90 più di altri gruppi si distingue per la resistenza armata, non riconosce lo Stato d’Israele. Anzi ne propugna la fine nel suo statuto fondativo del 1988.
È vero che la resistenza palestinese precede la Guerra dei sei giorni (1967). I primi gruppi armati palestinesi si sono formati negli anni ‘50, per praticare attacchi contro Israele a partire soprattutto dalla Striscia di Gaza. Perché i combattenti palestinesi degli anni ‘50 lottavano contro Israele e non contro l’Egitto e la Giordania? Perché nel 1948 lo Stato di Israele aveva occupato il 78% della Palestina mandataria, espulso circa 700.000 palestinesi e distrutto centinaia di villaggi. Per i palestinesi degli anni ‘50, Israele stessa era l’occupazione e l’espropriazione delle terre palestinesi. La priorità della lotta era il Ritorno. Egitto e Giordania esercitavano una giurisdizione, anche con elementi duri, autoritari e repressivi. Però, non colonizzavano la terra dei palestinesi, non gli demolivano le case, non gli distruggevano gli uliveti, non gli chiudevano le strade, non li fermavano ai check-point, non li arrestavano e non li uccidevano quotidianamente.
Esaurite le generazioni palestinesi vittime della Nakba, la resistenza palestinese viene poi rilanciata e alimentata dall’occupazione israeliana del 1967, che perdura ancora oggi. Un’occupazione fatta di legge militare e colonizzazione. Contro la quale l’insurrezione vera e propria dei palestinesi inizia nel 1987 con la prima intifada. Ciò nonostante, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), nel 1988, riconosce tutte le risoluzioni dell’ONU, quindi anche quella del 1947, che raccomanda la ripartizione della Palestina in uno stato ebraico e in uno stato arabo. E nel 1993, l’OLP sigla gli accordi di Oslo per il riconoscimento reciproco tra Israele e Palestina e per il ritiro graduale di Israele dai Territori Occupati. Accordo disapprovato e sabotato da Hamas e dalla destra israeliana, che arriva a uccidere il primo ministro Rabin.
Quando gli Accordi di Oslo sono ormai naufragati — dopo il fallimento di Camp David (2000) e Taba (2001), il ritorno al governo del Likud con Ariel Sharon (2001) — nel giugno 2003 e nel gennaio 2004 Hamas propone la Hudna: dieci anni di tregua a Israele in cambio di un ritiro completo da tutti i territori occupati, conquistati nella Guerra dei Sei Giorni, e la creazione di uno Stato palestinese in Cisgiordania ed a Gaza. Il leader di Hamas fautore della proposta era Abd al-Aziz al-Rantissi, ucciso dall’IDF il 17 aprile 2004, in un omicidio extragiudiziario.
La Hudna viene poi recepita senza limiti temporali specificati nel nuovo Statuto di Hamas del 2017, là dove dice che «Hamas considera la creazione di uno Stato palestinese pienamente sovrano e indipendente, con Gerusalemme come capitale sulla falsariga del 4 giugno 1967, con il ritorno dei rifugiati e degli sfollati alle loro case da cui sono stati espulsi, come una formula di consenso nazionale». Il 4 giugno 1967 è il giorno precedente la Guerra dei sei giorni. Israele e molti osservatori giudicano il nuovo documento insufficiente, quindi ingannevole, per il mancato riconoscimento esplicito dello Stato d’Israele. Ma con ciò disconoscono la svolta pragmatica e la potenzialità di una evoluzione.
Dopo il nuovo Statuto del 2017, Hamas con gli altri gruppi palestinesi, nel 2018-2019, organizza la “Grande marcia del ritorno”, una manifestazione pacifica settimanale, per ricordare la Nakba e riconquistare l’attenzione internazionale sulla questione palestinese. Israele reagisce con la repressione: 200 palestinesi uccisi, 8.000 feriti.
Oggi, i palestinesi cosa vogliono? Liberare i territori occupati o tutta la Palestina dal fiume al mare? Credo vogliano innanzitutto sopravvivere, restare nel luogo in cui abitano e riguadagnare un minimo di normalità. È molto difficile che i palestinesi possano distinguere tra le due prospettive, nel momento in cui non vedono nessuna prospettiva. Perché i palestinesi della Cisgiordania devono fronteggiare gli attacchi continui dei coloni e i palestinesi di Gaza devono fronteggiare le bombe, una carestia forzata e, forse, un genocidio, come documenta la recente risoluzione dell’International Association of Genocide Scholars (IAGS).
Considerando la grande sproporzione dei rapporti di forza, è molto difficile che possa essere la volontà del più debole a sbloccare la situazione e rilanciare un processo di pace. Il punto è cosa vuole Israele. La destra al governo vuole i Territori senza i palestinesi.
Che il comportamento di una popolazione sia determinato dalle condizioni materiali di vita e dal riconoscimento dei diritti fondamentali, più che dalla religione, l’ideologia o la propaganda, è dimostrato dalla minoranza arabo-israeliana, ovvero i palestinesi con la cittadinanza israeliana. Essi non hanno mai praticato alcuna forma di resistenza armata, hanno sempre lottato per i propri diritti con mezzi legali e pacifici. È questa la prova empirica: dove si riconoscono diritti e dignità, si riduce la resistenza violenta; dove si negano, l’oppressione alimenta la reazione.