Lo sciopero generale delle Usb per Gaza. Il framing della violenza

Lo sciopero generale Usb per Gaza. Roma stazione Termini bloccata.

Oltre mezzo milione di persone in più di 70 città italiane hanno partecipato allo sciopero generale indetto dai sindacati di base in solidarietà con la popolazione palestinese. La mobilitazione ha coinvolto molti settori: dai trasporti alle scuole, dai porti ai servizi. A Genova i lavoratori portuali hanno bloccato il traffico di armi diretto a Israele, impedendo a una nave sospetta di attraccare per tutta la giornata. A Roma decine di migliaia di persone hanno sfilato da Termini fino alla tangenziale, a Bologna i cortei hanno invaso autostrada e raccordo, mentre a Torino e Napoli i manifestanti hanno occupato i binari delle stazioni centrali.

Il caso più discusso è stato però quello di Milano, dove un gruppo di manifestanti ha tentato di entrare nella stazione Centrale ed è stato respinto dalla polizia. Ne sono seguiti scontri e contusi. Episodi minoritari, ma molto visibili, che hanno finito per catalizzare l’attenzione mediatica e politica.

La premier Giorgia Meloni e il centrodestra hanno condannato con durezza le violenze, parlando di “atti di teppismo” che non aiutano la causa palestinese. Le opposizioni hanno replicato chiedendo di distinguere tra la stragrande maggioranza pacifica e la piccola frangia violenta. Elly Schlein e Giuseppe Conte hanno accusato Meloni di sottrarsi al confronto parlamentare sulla linea del governo rispetto a Gaza.

La dinamica non è nuova. Ogni volta che un movimento di massa scende in piazza, si ripete un copione collaudato. C’è una mobilitazione ampia, trasversale e pacifica, che rappresenta una protesta legittima. Una piccola parte compie gesti violenti o dimostrativi, a volte provocata, a volte provocatoria. I poteri politici e mediatici ostili spostano subito il focus su questi episodi, fino a farne l’immagine dominante della protesta. La minoranza violenta diventa così il volto dell’intero movimento, mentre chi non prende le distanze in modo netto viene accusato di complicità. Intanto, le questioni sostanziali – in questo caso il traffico di armi e la posizione italiana sulla guerra a Gaza – scivolano sullo sfondo.

I media studies chiamano questo meccanismo “framing della violenza”: trasformare lo scontro con la polizia in titolo e foto di apertura, riducendo una mobilitazione di mezzo milione di persone a poche decine di incidenti. È anche una “strategia della marginalizzazione”: legittimare la repressione, spaventare l’opinione pubblica moderata, delegittimare le istanze del movimento senza affrontarle.

Il meccanismo funziona perché semplifica: ordine contro caos, forze dell’ordine contro “teppisti”. Così il governo evita di rispondere su questioni scomode come il transito di armi dal porto di Genova o la linea diplomatica italiana verso Israele.

Per questo la reazione delle opposizioni diventa decisiva: distinguere tra la maggioranza pacifica e le frange violente significa riportare il dibattito al cuore politico della protesta. È la posta in gioco: ridurre tutto a un problema di ordine pubblico o discutere finalmente di Gaza e del ruolo dell’Italia.

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